Waterworld: recensione del film con Kevin Costner
Recensione di Waterworld, con Kevin Costner nelle vesti di attore, co-regista e produttore, si inserisce nel filone di fantascienza distopica di Mad Max e del cinema anni Ottanta, per una pellicola cinematograficamente fuori tempo massimo.
La storia del cinema è piena di pellicole che al momento dell’uscita in sala fecero storcere il naso a pubblico e critici per poi venire rivalutati nel corso del tempo. Uno dei più celebri – se non il più celebre – flop artistico-commerciale degli ultimi vent’anni è certamente Waterworld, film del 1995 diretto da Kevin Reynolds con Kevin Costner (qui nelle vesti anche di co-regista e produttore), Dennis Hopper e Jeanne Tripplehorn; la pellicola di fantascienza distopica prodotta da Costner infatti – narrante le vicende del mutante Mariner alla ricerca della mitica Dryland – fu oggetto di una pre-produzione leggendaria, degna de I cancelli del cielo (1980) di Michael Cimino con cui il regista Premio Oscar 1991 per Balla coi lupi (1990) venne osteggiato dalla manovalanza e da Reynolds stesso.
Leggenda narra infatti, che il rapporto tra il regista e Costner fosse così tanto ai ferri corti per via dei continui suggerimenti e discussioni con il produttore-attore che, a poche settimane dalla conclusione delle riprese, Reynolds abbandonò il set lasciando a Costner il compito di portare a casa Waterworld. L’ironia della sorte volle che il rapporto tra i due prima della lavorazione, fosse eccellente, tanto che Costner si impose con la produzione per avere l’amico Reynolds in cabina di regia, dopo il successo di Robin Hood il principe dei ladri (1991).
E non solo, perché oltre al nervosismo alla base del rapporto tra il regista e l’attore, va aggiunto che mentre Kevin Costner stette per tutta la durata delle riprese in una villa con vista sull’oceano con maggiordomo, chef e piscina privata a 4.500 dollari a notte, i membri della troupe – compreso il regista Reynolds – vennero stipati in un modesto residence senza condizionatori. Il tutto non fece che acuire i rapporti già pessimi tra l’attore protagonista e il resto della troupe, in un clima di difficile sopportazione reciproca.
Il riferimento a I cancelli del cielo di Micheal Cimino non è del tutto casuale, il materiale girato da Reynolds (e Costner) prevedeva un minutaggio di ben tre ore, che dopo il flop commerciale di Wyatt Earp (1994), diretto da Lawrence Kasdan, con protagonista sempre Costner – dal minutaggio similare – venne sensibilmente ridotto in fase di post-produzione. Ne consegue però che il cut cinematografico, voluto dallo stesso Costner per non replicare gli effetti negativi al botteghino di Wyatt Earp, non rispecchiassero appieno la visione di Reynolds, dando così allo spettatore la percezione di una scrittura zoppicante e piena di lacune. Nella visione estesa – nota come The Ulysses Cut – Waterworld avrebbe esplorato ulteriormente l’ambiente narrativo alla base dello script, e la mitologia degli Smokers nonché la loro abilità di raffinare olio. Tutti elementi essenziali per una pellicola di fantascienza distopica, dove l’approfondimento degli elementi alla base dell’ambiente in cui si muovono i protagonisti, risulta decisivo per creare un’opportuna esperienza immersiva.
Waterworld: una struttura narrativa ambiziosa dal radicato sottotesto storico-sociale
La narrazione di Waterworld è certamente affascinante e ambiziosa, parliamo infatti di una struttura narrativa da kolossal il cui dipanarsi di un intreccio appena accennato, diventava in linea di principio funzionale per permettere allo spettatore di esplorare al meglio l’ambiente narrativo alla base del mondo di Waterworld. Un nuovo Medioevo nel XXI secolo frutto di un cataclisma che ha causato l’innalzamento delle temperature e lo scioglimento delle calotte polari che portato al lento inghiottimento di tutti i continenti e di buona parte della popolazione. I sopravvissuti si trovano così a doversi spartire piccole zone di terra e città-atollo – vivendo come selvaggi – alla ricerca di carburante e di nuove forme di alimentazione. Un fortissimo sottotesto storico-sociale corroborato dalla presenza scenica della Exxon Valdez, che se nel 1995 risultava quasi fantascientifico – e lontano -, oggi risulta invece più che mai attuale visto l’innalzamento delle temperature e i continui incendi in Alaska e Siberia: la fantascienza distopica si è così tramutata nell’amara realtà.
Ne consegue però, che a fronte dei fortissimi tagli che vennero fatti in post-produzione per evitare il flop “alla Wyatt Earp“, la narrazione, per quanto l’intreccio semplicistico risulti funzionale allo sviluppo dell’ambiente, sia fin troppo poco approfondito. L’assenza delle background story dei personaggi di Mariner (interpretato da Kevin Costner) ed Helen (interpretata da Jeanne Tripplehorn), nonché degli stessi Smokers di Deacon (interpretato da Dennis Hopper), non fanno che creare una sensazione di distacco dagli eventi narrati. Non bastano a Waterworld l’appena accennata leggenda di Dryland e il suggestivo “portogrechese” infiocchettati in una narrazione dal ritmo cadenzato e dallo sviluppo (tediosamente) lineare a creare un’opportuna e adeguata sospensione dell’incredulità. Il patto di complicità tra spettatore e materiale filmico dinanzi a una narrazione così lacunosa viene meno e l’ambiente narrativo che Reynolds prova a valorizzare con una regia attenta e dinamica, non può che crollare.
Waterworld: un concept vincente fuori tempo massimo
Il concept di Waterworld è notevole, indubbiamente, ma figlio di un tempo in cui l’industria hollywoodiana muoveva verso altri lidi. Il grande errore alla base della produzione di Waterworld non furono tanto il non mettere freno alle ostilità tra Kevin Costner e la troupe, o il porre un limite alla post-produzione selvaggia che finì con il bruciare la visione di Reynolds – piuttosto il non aver saputo opportunamente saggiare il periodo storico-cinematografico che si stava vivendo. Waterworld infatti è stato rilasciato fuori tempo massimo, il cinema degli anni Novanta muoveva verso storie dal grande impatto emozionale, con grandi interpreti – immaginate in che modo l’audience potesse porsi dinanzi a una pellicola di fantascienza distopica, quando appena un anno prima i film candidati all’Oscar erano: Forrest Gump (1994), Le ali della libertà (1994), Quiz show (1994) e ultimo ma non ultimo – visto l’impatto che ebbe nella storia del cinema – Pulp Fiction (1994).
Negli anni Ottanta sarebbe stato l’ideale visto che lo scenario fantascientifico muoveva verso pellicole similari, come nel caso eclantante del film-manifesto di George Miller, Interceptor: Il guerriero della strada (1981), Blade Runner (1982), Terminator (1984), Aliens (1986) – mancava tuttavia la tecnologia necessaria per poter produrre qualcosa di simile, oltre al fatto che la carriera di Costner – ancora agli inizi e lanciato proprio da Kevin Reynolds con Fandango (1985) – non era ancora di tale importanza da permettergli di avere abbastanza credito per produrre un qualcosa del genere. L’ideale sarebbe stato il periodo odierno, il cinema fantascientifico degli anni Duemila-Duemiladieci infatti, sarebbe stato il terreno fertile ideale per un progetto visionario come Waterworld, con un pubblico certamente più abituato a una certa tipologia di linguaggio e chissà che probabilmente non sarebbe stato percepito in modo più positivo da critica e pubblico, basti pensare all’impatto avuto nell’immaginario collettivo da Mad Max: Fury Road (2015).
Apologia di Waterworld: Costner, il visionario e la rinascita di un mito
Waterworld, rivisto a 24 anni di distanza dal rilascio nelle sale, ha certamente ben altro peso specifico, risultando più che una pellicola di fantascienza distopica, una pericolosissima visione di near-future volta a dimostrare ancora una volta la grande visione autoriale di Kevin Costner. L’autore statunitense infatti, da Balla coi lupi (1990), a Wyatt Earp (1994), passando per Waterworld (1995), sino a L’uomo del giorno dopo (1997), non fece che proporre progetti kolossali, visionari, dal grande minutaggio, con cui raccontare grandi storie di grandi valori attraverso narrazioni “da epica” – ma in un periodo in cui il cinema procedeva invece verso gli investimenti sicuri e le storie strappalacrime. Resta l’impressione e il rammarico che Waterworld avrebbe potuto avere un impatto diverso nella storia del cinema – oltre che aver arrestato bruscamente la carriera del Kevin Costner produttore/regista/autore – per quello che è ritenuto a tutt’oggi il più grande flop commerciale del cinema degli anni Novanta, ma da qualche tempo, a pieno titolo, come una delle visioni cinematografiche più suggestive dell’epoca contemporanea.