We are Marshall: recensione del film con Matthew McConaughey
Basato sulla storia vera della squadra di football della Marshall University, We are Marshall racconta del potere terapeutico dello sport e rivela la bellezza delle imprese impossibili
Dal campo allo schermo la storia è sempre quella. Una squadra fallisce, si impegna: vince. Lo schema è primitivo, ma concede libertà. Perché in questi film non si parla mai di sport. Sono pretesti oltre cui si affaccia epica, politica e fede. Prefabbricati emotivi da sempre aggrappati al fascino delle sfide impossibili, su cui film come We Are Marshall costruiscono fortune.
Il film di McG, uscito nel 2006, vede Matthew McConaughey guidare la nuova formazione della squadra di Football della Marshall University. Siamo nel 1970, e una tragedia si è appena abbattuta su Hungtinton. Nella sera del 14 novembre, l’aereo che trasportava giocatori e tecnici della squadra precipita. Si contano 75 morti. Il mondo dello sport e l’intera città del West Virginia sono sotto shock. Tornare in campo sembra fuori discussione. Ma proprio quando l’università si prepara a chiudere il progetto sportivo, gli studenti insorgono: “we are Marshall”. Allo sport la difficile impresa di traghettare la città fuori dal cordoglio.
We are Marshall, football come terapia
Sullo sfondo della tragedia, McG cerca il film di valori. Il cocktail letale di discorsi motivazionali lo beve McConaughey. Basette e zampe di elefante, è l’outsider perfetto. Arriva dopo la tragedia e rimette in piedi la squadra. Aiutato dall’ex coach (Matthew Fox), pervaso dai sensi di colpa per essere sopravvissuto, cerca calciatori, baskettisti e promesse del football per formare una squadra di fuori classe. Dopo un primo atto votato al dramma, McG porta We are Marshall in zone più sicure. La divisione è netta, McConaughey prende in mano la situazione: “adesso basta chiacchiere, si inizia a sudare”. Viene così interrotto anche un voice over eccessivamente verboso. Improntato al commento facile di una tragedia su cui la retorica scivola rischiando di mandare a gambe all’aria il film. Ma We are Marshall incassa, tentenna sull’area di meta e infine arriva al touchdown.
Dietro gli obblighi di cronaca lo schema non cambia. La squadra, dopo qualche fallimento, deve vincere. Pena la delusione di una città già distrutta dal ricordo. Lo stadio, teatro della vicenda, prende le forme dello spazio religioso. McG lo inquadra nelle due funzioni di ritrovo e commemorazione. Per quanto nebuloso, il messaggio arriva. Lo sport è ancora una volta più di una partita. Diventa una scommessa e approda all’allegoria.
Manca a We are Marshall una sceneggiatura incisiva. Gira attorno alla vicenda, ma le parole si sprecano e perdono di valore. Consuma subito la retorica sportiva (“quel che conta è vincere!”) e lavora di perifrasi. McConaughey recita il consueto discorso pre-partita. Siamo lontani dalla nitidezza di Oliver Stone e il suo Ogni maledetta domenica. Nella scena madre Al Pacino solcava nuove forme oratorie, entrando di diritto tra i baluardi degli speech motivazionali. Privato delle giuste parole, McConaughey porta comunque a vittoria il film. Ricuce gli strappi della sceneggiatura e si prende carico di un’interpretazione originale. Accompagnato da un efficace Matthew Fox, all’epoca ancora sull’isola di Lost, che riesce nella parte più emotiva.
La partita di chiusura conclude lo schema. L’attrazione per le cause perse ci porta a seguire ogni azione in campo. La squadra avversaria è troppo forte. Ma i nostri hanno più ragioni. “Il funerale finisce oggi”, la palla rotea e la città trattiene il respiro. E noi con lei. Il lutto viene elaborato e il football diventa terapia.