What men want: recensione della commedia di Adam Shankman
Remake al femminile di What women want con Mel Gibson, il film con Taraji P. Henson, è una commedia che soffre del suo essere derivativa.
Forse uno degli effetti più discutibili del post #meetoo è l’incremento di remake al femminile di successi al botteghino e cult del cinema. Dopo Ghostbusters del 2016 e Ocean’s 8 del 2018, arriva ad ingrossare le fila del pinkwashing anche What men want, riscrittura della commedia con Mel Gibson e Helen Hunt What Women Want – Quello che le donne vogliono del 2000.
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Adam Shankman non è certo il primo arrivato: ha diretto, tra gli altri Haispray e Come d’incanto, per cui il risultato è una commedia di buon livello nella regia, nella scrittura e nel ritmo. Eppure il film soffre del suo essere derivativo e di portare con sé i difetti dell’originale, che – se potevano essere a stento tollerati nel 2000 – diventano davvero indigesti nel 2019, anno di produzione del film. Tuttavia, il grande merito di What men want è di essere tecnicamente (da un punto di vista recitativo, anche) così “giusto” da far passare in secondo piano anche i suoi contenuti antiquati.
What men want: a cosa pensano gli uomini?
Forse andrebbe chiarito: fare un film a favore delle donne non significa raccontare una storia che denigra il genere maschile. Riprendendo il trick narrativo del film del 2000, What men want mette la protagonista Ali (Taraji P. Henson) nelle condizioni di ascoltare i pensieri degli uomini (nel film originale i generi erano invertiti) e di conoscere, quindi, tutto ciò che passa loro per la mente. Subito la donna è invasa da un mare di idiozie e pensieri elementari, come se il genere maschile con cui entra in contatto fosse composto unicamente da un branco di sessuomani incontinenti e superficiali. Dopo il panico iniziale, la protagonista riuscirà a volgere la situazione a suo vantaggio per poi rendersi conto – in un finale piuttosto retorico, ma che salva parzialmente il messaggio finale del film – che non le occorrono poteri magici per risolvere la sua vita, quanto una sana fiducia nelle sue capacità. E, ahimé, un uomo che la ami.
Come si era già accennato, uno dei punti di forza sta nella recitazione. Sicuramente gli interpreti sono stati fortemente agevolati da una scrittura calibrata su di loro, che giocano con la bellezza di essere afroamericani rampanti, fieri del proprio background estetico e culturale e stanchi di essere considerati degli eroi di serie B. In questo senso Taraji P. Henson è una protagonista molto efficace, portatrice di una bellezza non convenzionale e che gioca con il personaggio della “donna in carriera che non ha tempo per i sentimenti”. Come spesso accade, però, questa è una maschera che nasconde una fragilità e un bisogno d’amore e che riporta il personaggio femminile alla più rassicurante condizione di innamorata. Parafrasando una nota femme fatale: “Non sono uno stereotipo, è che mi disegnano così”.
I punti di forza del film
Intorno a questa rappresentazione impietosa dei generi, What men want imbastisce un contorno arricchito da alcuni personaggi interessanti. Su tutti la pseudo-mistica Sister, interpretata da una fantastica Erykah Badu: la meravigliosa cantante R&B qui si veste di panni comici, con un ruolo secondario che – da solo – merita la visione del film. Sister è una spacciatrice d’erba che, all’occorrenza somministra tisane sciamaniche per ravvivare gli addii al nubilato. Dal look stravagante, resta lei stessa incredula davanti al fenomeno che ha causato: ovviamente non c’è bisogno di indagarne le origini, né di dare a questo bizzarro evento una spiegazione semi-scientifica, poiché ha l’unico scopo di innescare l’azione.
Attorno ad Ali, le sue amiche, i suoi colleghi (tra cui segnaliamo Kevin Myrtle, ovvero Max Greenfield di New Girl), il suo amante e il suo assistente. In particolare quest’ultimo, interpretato da Josh Brener, descrive una condizione subalterna a quella femminile, su cui la protagonista – almeno in un primo momento – esercita un potere tirannico e umiliante. Anche in questo caso, abbiamo a che fare con l’ennesimo, pessimo, stereotipo (quello dell’assistente gay effeminato e quindi debole di carattere) la cui evoluzione riesce a creare un certo legame empatico col personaggio.
What men want è una commedia che parla di temi nuovi (ad un certo punto è citato esplicitamente il #meetoo e, in generale, il maschilismo sui posti di lavoro), ma con un linguaggio – per alcuni versi – antico. D’altra parte, non essendo dichiaratamente un film-manifesto ma un reboot di un classico di quasi vent’anni prima, assolve al compito di rendere omaggio e di intrattenere. Non entusiasmante, ma godibile.