Noir in Festival 2021 – Wildland: recensione del film di Jeanette Nordahl
La recensione dell’opera prima della cineasta danese Jeanette Nordahl, presentata nel concorso del 30° Noir in Festival dopo il battesimo di fuoco alla Berlinale 2020.
Sull’asse Germania – Italia si muove il percorso festivaliero di Wildland, l’opera prima di Jeanette Nordahl che dopo il debutto alla Berlinale 2020 ha avuto la sua anteprima (virtuale) in terra italiana sugli schermi del 30° Noir in Festival, laddove ha battagliato con altre cinque pellicole per portarsi a casa l’ambito Black Panther Award. Le speranze di salire sul gradino più alto del podio del miglior film sono per quanto ci riguarda ridotte al lumicino viste le mancanze riscontrate sulla timeline e le qualità espresse dai restanti titoli in gara, ma su una cosa può giocarsela alla pari e addirittura ambire a un riconoscimento nel palmares della kermesse lombarda e quel qualcosa è un premio alla performance delle sue interpreti femminili. Da una parte troviamo la giovane Sandra Guldberg Kampp e dall’altra la più esperta Sidse Babett Knudsen, che vestono rispettivamente i panni della diciassettenne Ida e di sua zia Bodil. Le due si trovano a convivere sotto lo stesso tetto con i figli maggiorenni della donna dopo la morte della madre della ragazza in un incidente stradale. Una convivenza che all’inizio sembra andare a gonfie vele, ma che poi si trasformerà in una trappola senza via d’uscita quando verranno a galla i traffici illeciti dei padroni di casa.
Le performance attoriali sono le scialuppe di salvataggio di Wildland
Sono loro i terminali di un dramma familiare in odore di crime misto a thriller psicologico. E sono sempre loro, ciascuna a proprio modo, a caricarsi letteralmente sulle spalle il peso del film della connazionale, altrimenti privo di grandi sussulti narrativi, drammaturgici e tecnici. La Knudsen in particolare ruba la scena a tutti ogni volta che viene chiamata in causa. Rappresenta il valore aggiunto, di quelli capaci di risollevare le sorti di una partita condotta in gran parte nelle retrovie. L’attrice danese alza l’asticella, aiutando i restanti membri del cast, compresa la convincente protagonista, ad aumentare di livello e intensità la performance corale. Il ché garantisce a Wildland una scialuppa di salvataggio quando la scrittura e la regia non danno quello che dovrebbe.
Wildland: al centro dell’opera prima della danese Nordahl c’è una matriarca pronta a tutto pur di difendere i suoi “cuccioli”
La Knudsen in tal senso sembra ricoprire il ruolo di allenatore-giocatore in campo quando la Nordahl se ne sta seduta in panchina a guardare. La cineasta danese si affida a lei e fa bene, consegnandole le redini. L’attrice la ripaga con una grandissima prova, vestendo i panni di una matriarca che controlla fisicamente e psicologicamente i propri figli, che ha occhi in ogni dove ed è pronta a tutto pur di difendere i suoi “cuccioli” dalle minacce esterne. La sua Bodil sembra incanalare la crudeltà della Crystal di Solo Dio perdona e della Janine ‘Smurf’ Cody di Animal Kingdom.
Alle fragilità strutturali e all’impalpabilità stilistica fanno da contraltare atmosfere ansiogene e momenti di forte tensione
Nonostante le fragilità strutturali e l’impalpabilità stilistica, il film è pervaso da un’atmosfera densa e oscura, alimentata da una preoccupazione crescente che fa sì che ogni parola, gesto, sguardo e non detto sembrino sospetti. In effetti, più che nella trama e nelle sue esili articolazioni che si rifanno alla lettera al mafia movie domestico, è nelle atmosfere ansiogene e nell’affacciarsi sulla timeline di momenti di forte tensione (la spedizione punitiva dei cugini a casa di un debitore alla quale prende parte anche Ida, l’interrogatorio della protagonista con la polizia e l’assistente sociale o l’inaspettato epilogo) che lo spettatore deve andare a cercare gli ingredienti di punta di una ricetta altrimenti piuttosto comune e anonima.