Will Hunting – Genio ribelle: recensione
Due giovani esordienti, Ben Affleck e Matt Damon, una sceneggiatura originale scritta a quattro mani, Gus Van Sant alla regia. Il risultato non può che essere un piccolo gioiello di cinematografia contemporanea, un’opera fortemente introspettiva, che scava nelle profondità più remote della complessa mente umana, facendo emergere, anche in quella più brillante, paure e insicurezze, turbamenti e malinconie. Con semplicità e freschezza, senza aspirazioni retoriche e qualunquiste, i due giovani sceneggiatori plasmano abilmente il carattere di un giovane che, dietro all’impenetrabile muro di arroganza e strafottenza, si dimostra non soltanto la personificazione vivente della più comune paura umana, l’abbandono, ma un personaggio-emblema in cui ognuno può ritrovare quei turbamenti, quelle ferite mai rimarginate che si porta dolorosamente dentro.
Will Hunting (Matt Damon) è un problematico e geniale ragazzo prodigio dall’impenetrabile carattere e dall’oscuro passato che, incapace di relazionarsi e di aprirsi agli altri, spreca la propria vita e il proprio talento tra compagnie di sbandati, squallidi bar e bravate infantili in un desolato quartiere di South Boston. Dotato di una incredibile mente matematica, dopo aver risolto un impossibile teorema, viene notato da Gerard Lambeau (Stellan Skarsgård) luminare insegnante del facoltoso dipartimento matematico del MIT, fermamente deciso a sfruttare il sovrannaturale talento del ragazzo per raggiungere quei traguardi che lui non è mai stato realmente in grado di toccare. In seguito all’ennesima ingiustificata rissa di quartiere, Will viene costretto, grazie all’intercessione del professore, a vedere periodicamente uno psicologo finendo per psicanalizzarli lui stesso, spingendoli alla ritirata e venendo così affidato a Sean (Robin Williams)ex collega universitario di Lambeau che, proveniente dal medesimo degradato ambiente, si rivela l’unico realmente in grado di fare minimamente breccia, in veste di amico e confidente, nella mente e nel cuore del ragazzo.
Quella di “Will Hunting-Genio ribelle” (1997) è una storia semplice, brillante ed incisiva raccontata in maniera viscerale e toccante che, procedendo fluidamente senza lasciarsi andare ad eccessivi sentimentalismi, spinge lo spettatore a riflettere sulla difficoltà e sul coraggio dell’essere realmente se stessi, di mostrarsi vulnerabili, rischiando di ferire o di essere feriti. Non è fuggendo la sofferenza, celandosi al mondo, trasformandosi in una caricatura di se stessi che si può dire di aver davvero vissuto, ma è affrontando la realtà, facendo i conti con i fantasmi del proprio passato, cadendo e rialzandosi, che si comprende che la felicità non risiede nella mancanza di sofferenza, ma nella capacità di trovare in sé la forza di affrontarla. Il film traccia genuinamente il ritratto di un ragazzo solo, abbandonato, insicuro, morbosamente attaccato ad amici che sono da sempre la sua unica famiglia, in conflitto con tutto e tutti, ancorato in una realtà che non gli permette di sfruttare liberamente il proprio potenziale, quello stesso potenziale che lo trasforma in una “cavia da laboratorio” agli occhi del professore che vede in lui tutto quello che egli non è mai riuscito ad essere (“ spesso vorrei non averti mai conosciuto, perchè potrei dormire la notte”), che rappresenta per l’amico fraterno Chuckie (Ben Affleck) un “lascia–passare” per una vita vera, lontana da quella squallida realtà in qui “ ti svegli il giorno dopo ed hai già cinquant’anni” ,ma che si sta trasformando per Will in una gabbia sempre più soffocante, in un tunnel senza uscita. Tutti vedono in lui solo la sua brillante mente, nessuno è stato mai davvero in grado di penetrare il suo animo, di scrutarlo nel profondo, rendendosi conto che dietro all’abilità matematica e al muro di insolenza e impertinenza, c’è solo un semplice ragazzo alla ricerca di attenzioni, dell’affetto che gli è sempre stato negato, della possibilità di determinare liberamente il proprio futuro che non gli è mai stata concessa. Non a caso il titolo originale “Good Will Hunting” allude proprio alla ricerca di una ragione di vita, di una finalità per la propria esistenza, di un futuro che sarà conquistato soltanto attraverso l’aiuto di Sean, la cui intensa paterna tenerezza non poteva che valere l’Oscar per il miglior attore non protagonista, ad un magistrale ed empatico Robin Williams.
Tra i due si instaura faticosamente un rapporto fatto di eloquenti silenzi, di sgurdi rivelatori che spingeranno entrambi a confidarsi, ad aprirsi, ad imparare reciprocamente, a trovare il proprio io attraverso l’altro, a mettere a confronto le proprie paure, i proprio sentimenti , ma soprattutto, ad elaborare il proprio abbandono e a liberarsi dagli ossessivi fantasmi del passato.
Sean sarà il primo ad accettarlo realmente per quello che è, ad abbattere l’impenetrabile guardia , facendo gradualmente emergere quella timidezza, quella fragilità, quell’insicurezza di chi non ha mai potuto contare su nessuno, di chi non ha mai concesso ma, soprattutto, ricevuto fiducia, portando alla luce il ragazzo dietro il genio, la fragilità dietro la spavalderia ed accompagnandolo, passo dopo passo, fallimento dopo fallimento, in quel complesso ed oscuro processo di accettazione e riscatto del proprio oscuro passato. Un passato fatto di abbandoni, famiglie affidatarie, silenziose sofferenze e invisibili lacrime, che Sean conosce fin troppo bene, rendendolo finalmente in grado di affrontare realmente il presente e programmare il futuro, non quello di un genio, ma quello di un giovane alla ricerca di se stesso.
“Se ti chiedessi sull’arte, probabilmente mi citeresti tutti i libri di arte mai scritti. Michelangelo, sai tante cose su di lui, le sue opere, le aspirazioni politiche, lui e il Papa, le sue tendenze sessuali. Ma scommetto che non sai dirmi che odore c’è nella Cappella Sistina. Non sei mai stato lì con la testa rivolta verso quel bellissimo soffitto. Mai visto! Se ti chiedessi sulle donne, probabilmente mi faresti un compendio delle tue preferenze. Ma non sai dirmi che cosa si prova a risvegliarsi accanto a una donna e sentirsi veramente felici. Se ti chiedessi dell’amore, probabilmente mi diresti un sonetto. Ma guardando una donna non sei mai stato del tutto vulnerabile.”
È nei brillanti dialoghi, accattivanti, coinvolgenti, accurati non privi di intensità e rabbia, coraggiosi,mai scontati e quasi crudeli che si cela il cuore pulsante di “Will Hunting – genio ribelle”, il suo centro nevralgico, la reale chiave , che permette allo spettatore di decodificare la mente del suo protagonista, di abbattere, pezzo dopo pezzo, quella sterile barricata, per scoprire realmente chi sia Will Hunting, delineando alla perfezione la figura di un ragazzo che maschera le proprie debolezze, che rischia di “passare la propria vita senza dover mai conoscere realmente qualcuno” e di un uomo affranto, afflitto dalla vita, provato dalla perdita che ha scavato in lui una voragine incolmabile.
Quella della coppia Affleck- Damon è una scommessa vinta (premiata con l’oscar per la migliore sceneggiatura originale), un quadro realistico della complessità della mente umana, refrattaria ad ogni indagine, celata al mondo da muri impenetrabili, da vetri infrangibili che non permettono a se stessi e agli altri di conoscersi veramente, di amarsi e accettarsi per quelli che si è, mettendosi a nudo, mostrandosi fragili ma autentici pochè la vita, la realtà, le relazioni, non sono un problema matematico da risolvere; nessun libro potrà mai preparare l’uomo alla realtà della vita. Soltanto la sua tenacia, il coraggio nel compiere le proprie scelte, nell’osare senza sapere a cosa si vada incontro, questo è vivere.