Woken: recensione del film di Alan Friel, visto al TSFF 2023
Un film piacevolmente distopico, quello diretto da Alan Friel con Erin Kellyman protagonista.
Una donna corre affannosamente. Si trova a un precipizio: la paura dietro di sé, mare e scogli sotto i suoi piedi. Sceglie l’ignoto. Inizia così Woken, il film di Alan Friel presentato alla 23ma edizione del Trieste Science+Fiction Festival e al cinema dal 4 luglio 2024, distribuito da Blue Swan.
Un film complottista, pandemico, intimo, in cui la sopravvivenza della specie umana si avviluppa all’atavico istinto di maternità, in una triade femminile che respira speranzosa verso nuove sponde.
L’autore, artefice anche della sceneggiatura, sceglie di parlare il linguaggio della perdita per disorientare tanto la protagonista quanto gli spettatori. Anna (Erin Kellyman) è la voce e gli occhi della nostra verità; è la guida a cui ci si appella fin dal primo istante della visione al fine di intuire cosa sta davvero accadendo, anche quando può sorgerci il dubbio che tutto sia regolare e stia andando per il verso giusto. Va da sé che sull’interpretazione di Erin Kellyman si basi gran parte della riuscita di Woken. L’attrice, già nota per Solo: A Star Wars Story, dona spessore alla protagonista distillando l’ansia, l’attesa e quel senso di ignoto che appare sconfinato dentro il suo io, incapace di darle una vera risposta.
Gli altri interpreti – Maxine Peake nei panni della dottoressa Helen, Ivanno Jeremiah in quelli del “marito” di Anna James, Peter McDonald in quelli del Dottor Henry e l’italiano Corrado Invernizzi in quelli di Peter – si allineano nel coro di un corpus umano che cuoce a fuoco lento la verità, fino a condurla alla sua autentica esplosione.
La regia “schiacciante” di Alan Friel
Ambientato su un’isola vergine (le riprese sono state fatte a Fanore Beach), Woken si serve di una regia estraniante, alimentata dalla grammatica del distacco. La macchina da presa di Alan Friel ci schiaccia in spazi interni angusti, soffocando in nostro sguardo affinché gli sia escluso l’orizzonte, l’oltre, lo sconfinato mondo che si estende al di fuori di quella terra solitaria.
Mancano i contorni, gli spazi d’aria attraverso i quali scorgere la verità: ci viene mostrato un mondo, anche esterno, assolutamente limitato. Il montaggio (Breege Rowley, Chris Gill, Manuel Grieco) alimenta la nostra ignoranza visiva, costruendo una prigione di immagini incasellate nel buio della menzogna. A supportare la visione la fotografia di Richard Kendrick, in cui lo stile retrò si alterna alla monocromaticità di certe scene.
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A non soddisfare pienamente è una sceneggiatura che non ha il coraggio di affondare la lama fino al midollo della sua presunta originalità. Di futuri distopici e pandemie, infatti, il cinema ne è piuttosto saturo e Woken di Alan Friel si aggiunge, in tal senso, a quel filone di film e serie TV in cui l’umanità appare decimata da una pandemia o da forze superiori, cercando poi di trovare la soluzione affinché non si estingua la specie. Nel film, che si avvale della supervisione degli effetti prostetici di Chiara Bartoli e della supervisione degli effetti digitali di Giuseppe Squillaci, il delicato e quasi dimenticato tema della clonazione avrebbe potuto avere forse un’esplorazione più audace, ma è chiaro che l’autore ha teso più a tessere una rete introspettiva, scommettendo tutto sul magnetismo di Anna e sulla sua psiche frammentata.
Woken: valutazione e conclusione
Tirando le somme, Woken sa pedinare la sua scoscesa linearità, facendosi forte delle ottime interpretazioni, sfruttando al massimo tutti i comparti tecnici, compresa la soundtrack di Ratchev & Carratello e il sonoro di Stefano Di Fiore e pigiando l’acceleratore sulla claustrofobia degli spazi aperti, in una visione mozzata del futuro in cui lo spettatore resta perennemente inchiodato alla poltrona. Il verdetto finale? Piacevolmente distopico!