Wolfkin: recensione del film di Jacques Molitor

La recensione dell’horror belga-lussemburghese diretto da Jacques Molitor e interpretato da Louise Manteau, distribuito nelle sale italiane dal 24 agosto 2023.

A memoria e listini o line up alla mano, a parte co-produzioni, partecipazioni con quote minoritarie e apparizioni festivaliere, si fa davvero fatica a rinvenire nei decenni passati ad oggi tracce di cinematografia lussemburghese sugli schermi nostrani. Non siamo di certo al cospetto di un Paese con una florida industria del settore alle spalle e centinaia di registi in attività. Del resto il settore in questione è fisiologicamente e direttamente proporzionale alla residua estensione territoriale della nazione che lo accoglie, motivo per cui il numero di opere audiovisive prodotte sul territorio in questione e soggette persino a esportazione oltre confine giocoforza non può essere numericamente elevato. Ecco perché la notizia dell’uscita nelle sale italiane di un film proveniente da quell’area geografica, seppur frutto di una co-produzione con il vicino Belgio, ha destato una certa curiosità negli addetti ai lavori. Si tratta di Wolfkin, opera terza del classe 1980 Jacques Molitor, distribuito a partire dal 24 agosto 2023 da Satine Noir, il label di Satine Film dedicato ai film di genere.

Wolfkin è un film dell’orrore piuttosto atipico che viaggia in direzione opposta e contraria rispetto alle tendenze del momento

Wolfkin cinematographe.it

Dal titolo si intuisce quale possa essere il genere nel quale la pellicola del cineasta lussemburghese si va a iscrivere, ossia l’horror. Ed è proprio questa sua natura di genere ad avere destato ulteriore interesse e curiosità. Da questo punto di vista Wolfkin è un film dell’orrore piuttosto atipico che viaggia in direzione opposta e contraria rispetto alle tendenze del momento che vedono le opere fare leva principalmente sull’estremizzazione della violenza e sulla tensione,  poiché nelle sue vene scorrono dosi massicce di dramma e critica sociale di rilevante attualità. Attraverso la storia di una giovane madre che cresce da sola il proprio figlio, la cui aggressività ha radici che si nascondono nel passato della famiglia del marito defunto che verranno a galla quando i due nuclei entreranno in contatto, Molitor punta il dito verso tre aspetti ben precisi che vanno a macchiare l’integrità della società lussemburghese: da una parte l’oppressione sociale della classe economica dominante rappresentata dalla famiglia paterna del giovane protagonista, dall’altra la spinosa disamina del ruolo delle donne nella società odierna. Nel mezzo un tema ancora più complesso e spinoso che getta ulteriore benzina sul fuoco, ossia la xenofobia dilagante e la difficoltà di integrazione per uno straniero in un Paese “pacato” come il Lussemburgo.

Wolfkin si fa carico di tematiche dal peso specifico rilevante, ma che non approfondisce a dovere

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Insomma, un carico di tematiche dal peso specifico rilevante, che la sceneggiatura firmata a sei mani da Régine Abadia, Magali Negroni e dallo stesso regista mette sul piatto, ma senza affondare oltre il necessario la lama. In tal senso, gli autori dello script scavano appena sotto la superficie, approfondendo solo in parte il potenziale tematico a disposizione. Il ché trasforma Wolfkin in un’occasione mancata, o meglio sfruttata solo in parte. Molitor dimostra di avere fatto sua la lezione dei grandi maestri del cinema di genere del passato, capaci di veicolare e plasmare argomentazioni importanti mediante gli stilemi dell’horror, peccato non averla messa in pratica fino in fondo. L’aspetto più riuscito dell’operazione non sta dunque nel modo in cui argomenta, bensì nel livello di realismo dettato da atmosfere di banale quotidianità che vengono progressivamente contaminata dal fantastico. È il come avviene questo switch e si innesca di volta, passando dal dramma al fanta-horror, il punto di forza del film, cosa che non è accaduta ad esempio in una serie che diverse analogie con Wolfkin, vale a dire Curon.

Gli effetti speciali e le interpretazioni, salvo quella di Louise Manteau, sono i punti deboli di un film che altrimenti si fregia di una confezione dalle tinte gotiche davvero interessanti

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A non funzionare invece sono le interpretazioni, fatta eccezione per quella di Louise Manteau nei panni della protagonista, con il resto delle performance è ampiamente al di sotto la sufficienza. Così come altalenanti risultano i VFX, non sempre all’altezza degli standard visivi richiesti. Ciò influisce sulla riuscita di alcune scene e sulla loro capacità di alzare e abbassare la temperatura emotiva, oltre che della tensione. Un tallone d’Achille non da poco per un film che altrimenti si fregia di una confezione estetico-formale dal gusto e dalle atmosfere gotiche davvero interessanti.

Wolfkin: valutazione e conclusione

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Con Wolfkin, il regista lussemburghese Jacques Molitor fa sua la lezione dei grandi maestri del genere del passato e la traduce in un film dalle tinte drammatiche in cui il cinema di genere, nello specifico quello horror, si tramuta in un veicolo di tematiche dal peso specifico rilevante e fortemente attuali. Peccato che la scrittura prima e la sua trasposizione poi non siano state in grado di scavare al di sotto della superficie, approfondendo solo in parte le numerose argomentazioni tirate in ballo. Gli effetti speciali altalenanti e le interpretazioni discontinue, ad eccezione di quella della protagonista Louise Manteau, rappresentano i punti deboli di un film che diversamente si fregia di atmosfere gotiche e di una confezione estetico-formale di qualità.   

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 2
Sonoro - 3.5
Emozione - 2

2.9