Wonder woman 1984: recensione del film DC con Gal Gadot
Ritorna il team composto da Patty Jenkins alla regia e Gal Gadot assoluta protagonista, con un sequel equilibrato nelle scene d'azione ma dal ritmo altalenante.
Squadra che vince non si cambia. La Warner Bros. ha reso finalmente disponibile il cinecomic più atteso nell’universo DC, Wonder Woman 1984, sulla piattaforma streaming HBO Max e nelle sale cinematografiche (ove possibile) a partire dal 25 dicembre. Possiamo nuovamente seguire le vicende di Diana Prince (Gal Gadot) in solitaria. L’antropologa e scopritrice di tesori preziosi continua a nascondere la sua vera essenza davanti agli occhi del mondo. Siamo nel 1984, le mode e le usanze sono cambiate drasticamente e vengono influenzate da uno stile di vita frenetico, all’insegna della ricchezza più smodata; l’obiettivo della cinepresa si sposta su Maxwell Lord (Pedro Pascal), un businessman e un fenomeno mediatico vivente, costretto a recitare sempre il solito slogan : “life is good, but it can be better”. Se vuoi qualcosa, preparati ad ottenerla sfruttando qualsiasi mezzo necessario, anche il più meschino. Un motto che diventa una condanna, e la sete di gloria inizia a consumare lentamente Max; Barbara Minerva (Kristen Wiig), nuova collega di Diana a lavoro perennemente schernita e derisa, rimarrà incantata dalla carica dirompente ed energica del truffatore, fino a trasformarsi in una creatura dotata di una forza straordinaria, Cheetah.
Wonder Woman 1984: Pedro Pascal si rivela una perfetta scelta di casting e ruba la scena a tutti
Wonder Woman 1984 presenta un villain sorprendentemente efficace, seppur condizionato da un arco evolutivo abbastanza prevedibile. Pedro Pascal offre una interpretazione che merita un paragrafo tutto suo. Se nel precedente capitolo del 2017 Gal Gadot doveva confrontarsi con minacce concettualmente pericolose ma poco impattanti sul fronte recitativo, ora la scrittura può arginare questo problema con una personalità ottimamente inquadrata e definita. Max Lord è un personaggio in grado di manipolare qualsiasi cittadino che rientra nel suo campo visivo: sfruttando un potere peculiare – che non possiamo descrivere nel dettaglio, pena lo spoiler diretto -, estende il suo desiderio di riscatto e di rivalsa in ogni vita umana che vuole ardentemente seguire il suo motto.
La vita può migliorare, la vita può godere di enormi miglioramenti con pochi e mirati desideri. Una mentalità deviata e unilaterale va causando danni irreparabili, e neanche l’eroina amazzone può rimanere indifferente di fronte alla fallibilità dell’uomo. In Wonder Woman 1984 Patty Jenkins, Geoff Johns e David Callaham si occupano di una sceneggiatura che stabilisce un punto fermo e una base pericolante, e solo attorno ad essa possono ruotare protagonisti e comprimari. Wonder Woman deve misurarsi con una parola che pesa tanto quanto il fardello che sta consumando Max: verità. Una parola che ridefinisce la principale figura positiva di riferimento, ancora assorta in pensieri legati all’unico interesse amoroso della sua vita, Steve Trevor (Chris Pine). Lo scontro ideologico fra verità e menzogna, manipolazione e accettazione di una vita moderata supera di gran lunga la spettacolarità delle sequenze d’azione in termini di qualità.
Il tocco di Hans Zimmer gioca un ruolo fondamentale per un sequel che tarda a mostrare le sue carte migliori
I due lati di una medaglia apparentemente scintillante, figlia di un’epoca storica incentrata sul glamour e sull’appariscenza, sono il fulcro di un sequel che pecca di equilibrio e di trasporto nella divisione in atti. La durata di 151 minuti si avverte nel tronco centrale della narrazione: si cerca di invogliare lo spettatore a rimanere interessati alla storia per condurli verso la rivelazione di un finale altamente emozionante, seminando nel frattempo degli spunti deboli e da rielaborare con la presentazione della morale del film. Lo schema qui presentato rischia di compromettere le performance di interpreti divertiti sul set, ma costretti a recitare battute che riassumono inavvertitamente i concetti esposti in un confronto conclusivo di grande impatto.
Kristen Wiig, proveniente dal mondo del Saturday Night Live e dedicata solitamente a commedie di stampo demenziale, riesce ad infondere un accenno di timore e riverenza nei confronti del personaggio di Diana, ma senza una evoluzione adeguata al contesto. Viene rappresentata come un jolly da giocare, impreziosendo le parti più concitate nelle quali Patty Jenkins può sbizzarrirsi nelle battute conclusive. La sua Cheetah è un tassello inserito per delineare maggiormente il grande piano di Max Lord, e dipende molto dalla sua crescente smània di potere. Una antagonista che – possiamo ammetterlo – sfigura con l’istrionico e spericolato Pascal nelle retrovie, ma non viene totalmente sacrificata per esigenze di second’ordine.
Hans Zimmer riprende il tema musicale di Wonder Woman e continua a stabilire una diretta connessione con un pubblico affamato di dettagli, quando si tratta delle sue soundtrack. Prende in esame l’ascesa di Max Lord e l’umanizzazione ancora più marcata della guerriera amazzone per poi mettere a confronto due percorsi molto simili fra loro: essi convivono con una mancanza in termini di affetto, un vuoto che sembra incolmabile ma assolutamente necessario per correggere e rifinire la loro integrità di fondo. Sogni, speranze infrante, possibilità e bivi narrativi; il ritmo, nel complesso, incontra qualche difficoltà durante la via ma è fermamente sostenuto da un compositore d’eccezione, che in diversi frangenti- come nel caso di Themyscira e Truth – raggiunge la perfezione assoluta. Sentire per credere.