World War Z: recensione del film con Brad Pitt
Brad Pitt interpreta e produce World War Z di Marc Foster, blockbuster con le stesse dosi di adrenalina e di buoni sentimenti in cui il divo lotta contro un'epidemia zombie.
Brad Pitt non è solo il protagonista di World War Z di Marc Foster, già regista del commovente Neverland e del dimenticato e interessante Monster’s ball. Il divo è anche produttore, ruolo in cui da una decina di anni è sempre più attivo producendo film in cui non compare e altri che lo vedono o protagonista o in parti comunque importanti.
In questi ultimi casi i ruoli da lui ricoperti sono stati perlopiù quelli di personaggi senza particolari sfumature e privi di ambiguità, eroici e positivi (12 anni schiavo di Steve McQueen e La grande scommessa di Adam McKay sono esemplari proprio per il fatto che Pitt non è protagonista ma è un comprimario che impersona gli aspetti più positivi di una realtà). World War Z non fa eccezione e in qualche modo gli zombie fanno da spalla al divo, eroe senza la minima macchia e paladino dell’amore famigliare. Accanto a Brad Pitt, compare anche il nostro Pierfrancesco Favino nel ruolo di un cervello in fuga.
La trama di World War Z vede il mondo improvvisamente sconvolto da una misteriosa epidemia che trasforma gli infetti in zombie, particolarmente forti, veloci e aggressivi. Jerry Lane (Brad Pitt), ex investigatore dell’ONU ritiratosi per stare con moglie e figli, chiede ad un suo vecchio amico, ora segretario generale delle Nazioni Unite, di mettere in salvo la famiglia sulla portaerei in cui le istituzioni sopravvissute e i militari cercano di mettere le idee in ordine, capire l’origine del problema e organizzare la resistenza. Accolto, gli viene però chiesto di collaborare alla ricerca di una soluzione.
Costretto ad abbandonare l’amata famiglia sulla portaerei, Jerry lotterà contro gli zombie in Corea del Sud, a Gerusalemme, su un aereo e, infine, in un centro di ricerca medica in Galles. Qui sperimenterà sul suo corpo la sua intuizione decisiva, avuta osservando la reazione degli zombie davanti a persone malate.
World War Z: cosa funziona e cosa no
World War Z si fa seguire senza particolari problemi, riuscendo a coinvolgere più con l’adrenalina degli inseguimenti e degli effetti speciali fumettistici che con la suspense e l’inquietudine dovute al senso di minaccia e di apocalisse legato ai non morti. Siamo infatti ben lontani dai terreni dell’horror, a malapena accennato; ci troviamo semmai di fronte ad un blockbuster costruito su misura del protagonista e con le stesse dosi di azione e di buoni sentimenti.
Viene quindi decisamente meno il retroterra che, nei risultati riusciti come in quelli meno convincenti, ha accompagnato molto spesso lo zombie al cinema; quello cioè di diventare metafora di paure, ingiustizie sociali e inquietudini diffuse. Come una sorta di esorcizazzione di una sfiducia nel futuro generalizzata e del timore che l’esplosione di urgenze della contemporaneità causi un crollo apocalittico non così improbabile e lontano nel tempo. Di tutto questo, se non come “riflesso pavloviano”, nel film di Foster non c’è ombra. Fin qui poco male; non è obbligatorio che ci siano queste riletture perchè un film con i morti viventi funzioni inquietando e divertendo.
Il problema è semmai che gli zombie hanno un ruolo quasi di semplice scenografia, di sfondo alle avventure, ai rovelli e alle nostalgie del protagonista. Sono “antagonisti” abbastanza monodimensionali e al loro posto potrebbero tranquillamente esserci le catastrofi e i cataclismi naturali che hanno fatto da sfondo a molti blockbuster che più si avvicinano a World War Z di quanto lo faccia un film horror. Non è un caso che le sequenze che colpiscono maggiormente sono quelle in cui i morti viventi sono quasi consapevolmente usati come strumenti scenografici; la panoramica sulla piramide non umana che assalta Gerusalemme è l’esempio più emblematico.
Se più di una sequenza ha il ritmo giusto e funziona, anche per merito di una certa cura scenografica e della fotografia non più che professionale ma funzionale, e coinvolge, nel complesso il film non entusiasma. O meglio, anche nei momenti in cui funziona non toglie mai il dubbio di assistere ad un fumettone pomposo e retorico, dove la prolissità si alterna alla spettacolarità e dove viene continuamente ribadita l’importanza della famiglia come fulcro dell’esistenza. Insomma, per usare un termine del gergo cinefilo spesso frainteso e abusato – non è però questo il caso -, potremmo dire di trovarci di fronte ad una classica americanata professionale, a tratti anche piacevole e sempre dimenticabilissima.