Zlatan: recensione del film su Zlatan Ibrahimović
Infanzia, vocazione e prime esperienze di Zlatan Ibrahimović, calciatore. In sala dall'11 novembre 2021 c'è Zlatan, biopic sull'Ibra privato dietro il campione pubblico.
Dopo il passaggio alla 16ma Festa del Cinema di Roma, l’11 novembre 2021 arriva nelle sale italiane Zlatan. Regia di Jens Sjögren, una distribuzione targata Lucky Red e Universal Pictures, biopic autorizzato, autorizzatissimo, di una delle più autorevoli e fotogeniche leggende del calcio degli ultimi venti/ trent’anni. Forse anche di di più.
Bisogna dire che la vita di Zlatan Ibrahimović di spunti anche solo vagamente romanzeschi ne offre in quantità, e ben oltre le acrobatiche sbruffonate generosamente dispensate sui campi di mezza Europa. Ha giocato praticamente dappertutto, parlando di campionati che contano. Premier (Manchester United), Ligue 1 (il Paris degli sceicchi), Liga (Barcellona), ma anche e soprattutto Italia. Addirittura qui uno e trino, e sempre a strisce. Juve, Inter e Milan, in rigorosa progressione cronologica. Per la verità il film allude solo alla prima delle tre italiane, perché quello che interessa qui non è tanto la nuda cronaca del successo annunciato, quanto piuttosto quello che succede all’origine di tutto. Gli anni della formazione, la prima gloria, quella olandese dell’Ajax, fino a un attimo prima di spiccare il volo in direzione, beh, qui da noi.
Zlatan: l’origin story dell’uomo, non solo del calciatore
Dunque? Chi è veramente, Zlatan Ibrahimović? Capire come imprigionare questa storia è già un bel primo passo. Il ragazzo difficile e la complicata Malmö suburbana dell’infanzia? Il figlio di immigrati jugoslavi e quel filo sottilissimo che lo tiene legato, o forse no, alla terra insaguinata delle origini? La punta talentuosa ma dalla testata facile, il ritornello sull’eterna promessa mancata? L’icona internazionale di impareggiabile sbruffoneria? Sul serio, un carattere impossibile. La regia di Jens Sjögren sceglie di percorrere l’inevitabile via del compromesso, e di far entrare a forza nella cornice tutto quello che può essere utile a capire l’uomo dentro il calciatore. Zlatan, già a partire dal titolo, mentre fa a pezzi il cognome, cerca di accumulare piste su piste per arrivare alla definizione più esaustiva di un carattere e una personalità di inusuale ampiezza.
L’architettura narrativa è quella dell’origin story. Niente di più, niente di meno, il film sceglie di raccontare l’eroe da giovane definendo i cardini della sua mitologia in modo non troppo dissimile dal percorso scelto dal cinecomic standard. C’è tutto. Le pose rubate ai compagni più grandi nei campetti di periferia, l’ossessione per le arti marziali, il mito Bruce Lee, molte delle sue spericolatezze sul campo di gioco vengono da lì. La lingua lunga e l’innata insofferenza per l’autorità, un Muhammad Ali spoliticizzato.
Allargando il campo, l’ambiente tutto intorno offre spunti. Un rapporto complicato con i genitori, separati. Soprattutto il papà Gedomir Glisovic, a modo suo e non senza contrasti, offre una sponda e mostra di credere sul serio alla carriera sportiva del figlio. Malmö è ostile, razzismo in sordina, anche quando arriva all’Ajax la situazione non cambia molto da questo punto di vista. Zlatan viaggia su due binari temporali, due presenti paralleli. L’Ibra svedese sul punto di spiccare il volo, e quello olandese a un passo dalla consacrazione definitiva, sorvegliato dal padre/ padrone/ fratello maggiore Mino Raiola (Emmanuele Aita), il celebre e potentissimo procuratore. A dare volto al giovane protagonista nella doppia incarnazione Dominic Bajraktari Andersson (prima) e Granit Rushiti (poi). Davvero bravi, replicano movenze, arroganze e posture del nostro con disinvolta credibilità. Le facce del film sono senza dubbio la cosa migliore del film.
Un film che gioca sul sicuro. Anche troppo
Zlatan racconta cose interessanti, mantiene un buon ritmo e non soffre troppo a conciliare passato e presente. Le sue verità vanno al di là del calcio, l’enfasi sportiva non deve allontanare lo spettatore ignaro dal film. Il problema è che questo parto di competenza generalizzata è ottenuto al prezzo di una convenzionalità di fondo che urta, perché non è degna dell’eroe, scorbutico quanto si vuole ma pur sempre eroe, rappresentato.
Oltre le intemperanze caratteriali, le giocate sopraffine, il ritrattino sociale. Oltre l’incredibile passaggio sul film di un Mino Raiola che Dio solo sa quanto meriterebbe uno spin-off tutto per lui, Zlatan cerca di dare profondità al ritratto senza affondare mai realmente il colpo.
Il film registra fatti interessanti, li accoppia a psicologie non sempre cesellate a dovere. Disegna il suo quadro d’ambiente ma non trova, per limite o volontà deliberata, quel taglio, quell’angolazione (di regia? di scrittura?) che sarebbe invece necessaria per far respirare sul serio il ritratto dell’uomo, prima che dello sportivo. A conti fatti, Zlatan distilla scampoli dell’Ibra pubblico mascherandoli da testimonianze private. Forse l’unica scintilla birichina di originalità arriva giusta giusta sul finale. Il sottinteso che, certo, maturare e crescere sono gran belle cose, però ecco forse il passaggio del talentuoso Zlatan Ibrahimović da punto interrogativo a macchina assassina affamata di gol e vittorie sta proprio nella capacità di fare la linguaccia anche alle leggi ordinarie dell’esistenza. Addirittura. E restare, cioè, l’ingestibile sbruffone dall’inevitabile vocazione casinista dei primi tempi. Uno su mille ce la fa, lui c’è riuscito. Imitarlo non è auspicabile.