Zoolander 2 – recensione del film con Ben Stiller e Owen Wilson
Come puoi amare undici persone… se prima non ami te stesso?
Sono passati quindici anni dal giorno in cui un terremoto di glitter e pailettes scosse fin dalle fondamenta il mondo della moda. Zoolander passò ben presto da commedia leggera a film di culto, e oggi torna più in forma che mai con un secondo capitolo a cui persino l’eminente professor Hawking ha voluto partecipare con il sigillo della propria voce. Tuttavia non tutto quel che luccica è… glitter.
La trama si può riassumere in poche parole: Derek e Hansel, travolti dalle vicissitudini della vita, si sono ritirati dal mondo della moda che, nel frattempo, si è evoluto, è cambiato e li ha, naturalmente, dimenticati. Quando le persone più belle della Terra vengono trovate uccise, tutte con l’espressione Blue Steel ad estremo saluto mortale, l’Interpool va alla ricerca di Zoolander, l’unico che può dare una risposta all’enigma della mitica espressione. Questo porta i due ex modelli a Roma, dove nell’ombra agisce anche il perfido Jacobean Mugatu (il sempre ottimo Will Ferrell), incarcerato e in cerca di vendetta contro Derek.
Zoolander 2 insegna che tutti possiamo essere belli belli in modo assurdo!
Può funzionare una parodia che è parodia di se stessa? La prima pellicola prendeva in giro con raffinata alchimia il mondo della moda, sbeffeggiando il culto del bello, le eccentricità di un mondo vicino eppure totalmente alieno. La seconda tenta di prendere in giro se stessa e il gioco funziona, in effetti, ma solo a metà. Tutto fila perfettamente finché si resta nei confini del grottesco, sagace, sapiente, utile allo scopo di intrattenere regalando qualche sorriso amaro. Smette di funzionare quando dal grottesco si scade nel surreale, che sembra fungere unicamente da riempitivo. Scene e battute al limite del demenziale solo per un soffio non arrivano a scadere nel trionfo della pernacchia alla Alvaro Vitali: il rischio c’era ed è stato evitato, tuttavia non si sentiva il bisogno di sequenze che riempiono gli spazi senza regalare sorrisi, rappresentando de facto le uniche vere cadute di stile su una sceneggiatura che altrimenti fila liscia dall’inizio alla fine.
A suo favore il lungo tempo trascorso tra il primo e il secondo film: andare al traino sarebbe stato fin troppo facile, mentre aver lasciato scorrere un po’ di acqua sotto i ponti contribuisce a rendere meno posticcio l’effetto comico, evitando i tormentoni alla American Pie o alla Scary Movie. Si sorride, quindi; talvolta si ride. Non abbastanza da tenersi la pancia, ma a sufficienza da non guardare mai l’orologio durante la proiezione.
Ben Stiller gioca a fare Woody Allen, producendo, recitando, dirigendo e scrivendo una commedia in cui tutto ruota attorno a lui. Ma Benjamin non è sua maestà Woody e si vede. Vittima sacrificale del proprio stesso ego, Ben non riesce a distinguere le cose ottime da quelle scadenti, rimanendo troppo spesso schiacciato dal macigno dell’autocompiacimento: qualche sforbiciata in più alla sceneggiatura e la rinuncia ad alcune gag autolegittimanti avrebbero sicuramente reso maggior giustizia ad un lavoro nel complesso positivo, inquinato qui e là da siparietti demenziali capaci di strappare, invece che risate, compassate alzate di sopracciglio.
Penélope Cruz finge di dimenticarsi quale attrice di livello sia, accantonando pellicole dallo spessore immenso come Volver e Vicky Cristina Barcelona, eppure dimostrando come anche nella commedia più leggera una vera attrice sappia collocarsi una spanna sopra gli altri. Si piega alla farsa e al dileggio boccaccesco, ma con la grazia che la contraddistingue, risultando credibile sia nelle vesti di agente speciale che in quelle di modella mancata per eccesso di doti mammarie. E per le italiche genti sentirla pronunciare la sua unica battuta in italiano con pronuncia perfetta è cosa che scalda il cuore e mostra a tutti cosa sia una professionista. Altro discorso per Cyrus Arnold (aka Derek Junior), il cui italiano stentato necessita di contro battute ad hoc atte a legittimarlo: funziona forse per le orecchie anglofone, ma nel Bel Paese suona ridicolo. Will Ferell torna nel medesimo personaggio del primo episodio, a fungere tanto da antagonista quanto da faro rivelatore delle assurdità dell’universo fashion. Un cattivo per cui è impossibile non parteggiare, grazie al quale si tenta, seppure invano, di far penetrare un po’ di realtà nel limbo surreale delle riviste patinate.
Incredibile la girandola di camei, comparsate e citazioni: attori drammatici e potenti si travestono volentieri da pagliacci, da Kiefer Sutherland a Susan Sarandon, da Benedict Cumberbatch a Milla Jovovich, tutti felici di porgere l’altra guancia al lato oscuro di Hollywood. Personalità del jet-set, della musica pop e della televisione prestano il volto al dileggio; mentre sfilano a decine le personalità del mondo della moda che colgono l’occasione per dire a tutti che sanno ridere di se stesse, in un carosello variegato che per chi ha vissuto i lontani anni ’70 potrà ricordare il gusto tutto italiano di pellicole come L’allenatore nel pallone, dove al posto della moda c’era la religione del calcio a farla da padrona. Ma il film è anche un palese tributo alla città di Roma e all’italianità in genere, seppur vista attraverso le lenti distorte della cultura americana: viziata dai soliti stereotipi della pasta, dell’immancabile gelato e dell’Arma dei Carabinieri che, a quanto parte, risulta essere l’unica forza dell’ordine nota ai cineasti hollywoodiani.
Fermandosi alla superficie il film è tutto qui. Ma scalfendo la patina dorata scopriamo che subito sotto si nasconde un messaggio giusto, giustissimo: siamo tutti bellissimi. Non importa chi o cosa siamo: magri, grassi, alti, bassi, etero, gay, zoofili o amanti della pasta. Tutti noi siamo bellissimi a prescindere. Il messaggio parte e viaggia dirompente, ma purtroppo non arriva come dovrebbe: si infrange miseramente contro l’immensa diga della burla e dello scherno a tutti i costi. Il messaggio avrebbe avuto molta più efficacia eliminando gli accenni all’amore passionale tra uomo e ippopotamo, per quanto animale gradevole, lasciando che il concetto non venisse annacquato dal patetico cliché del sesso di gruppo, della gravidanza maschile e della lotta nel fango tra aitanti e sexy virago.