Joaquin Phoenix e Lynne Ramsay parlano di A Beautiful Day
La regista Lynne Ramsay e l'attore Joaquin Phoenix presentano a Roma il loro nuovo film A beautiful day, raccontandoci della nascita del personaggio e di cosa li ha spinti a immergersi in questa opera che oscilla tra brutalità e dolcezza.
Partito da Cannes, in tour promozionale per il mondo ed ora in uscita il 1 maggio nelle nostre sale. A Beautiful Day, nuovo film di Lynne Ramsay con protagonista il talentuoso Joaquin Phoenix è un doloroso racconto di violenza e tenerezza, ripreso con durezza dalla regista e interpretato con sofferenza dall’attore, che per la sua prova ha vinto la palma d’oro maschile al festival francese. A Roma per presentare l’opera, regista e attore ci parlano della nascita del personaggio di Joe e di tutte le persone riposte ai margini della propria vita.
Joaquin, cosa ti ha spinto ad accettare la parte di Joe e cosa ti ha poi lasciato questo personaggio?
“In realtà non lo so. In ogni caso qualcuno viene sempre colpito o comunque influenzato, quello che fai ti lascia sempre un segno, come ciò che studi o che cerchi per dare vita al personaggio. Dall’altra parte se per mesi trascorri il tempo a leggere – così come abbiamo fatto – e a documentarti è normale che ciò fa in modo che qualcosa ti rimane, ma che tipo di segni non te lo so dire. Non so neanche cosa mi abbia spinto a scegliere il ruolo, è stato un lungo processo. Poi a dire la verità non l’ho neanche accettato completamente fino a metà delle riprese. C’è il direttore della fotografia Thomas Townend che io ammiro molto e a cui ho chiesto con chi avrebbe voluto lavorare e lui ha detto proprio Lynne Ramsay e nessun altro. Non sapevo che lei stesse scrivendo la sceneggiatura, me l’ha poi mandata e devo dire che mi è piaciuta tantissimo perché l’idea era di esplorare il personaggio in un film di genere e ciò ci sembrava entusiasmante. Però ci siamo accorti dopo che volevamo un approccio che fosse più spinto e portato dal personaggio che non dalla trama e questo piaceva ad entrambi.”
Lynne, nei tuoi film sembra sempre come se i personaggi fossero posti ai margini della loro vita. Secondo te è proprio così per tutti gli esseri umani?
“In un certo senso sì. Questo personaggio lo fa. Noi poi viviamo in una situazione un po’ strana, siamo tutti apparentemente più collegati, ma allo stesso tempo la verità è che siamo più sconnessi. Invece quello che per me è importante è il viaggio emotivo. È l’empatia e penso che in questo personaggio ci sia. A me piace lavorare in questo modo.”
La trama poteva essere paradossalmente una sorta di remake di Leòn di Luc Besson, invece prende poi tutt’altra piega, ha una sua autonomia nella storia. Cos’è quindi, di questa storia che avete trattato, l’elemento che vi interessa?
L.R.: “In realtà è tutto partito dal personaggio, un uomo ormai in una sorta di crisi di mezza età, da lì tutto si è evoluto. I vari pezzi si sono messi insieme. Non saprei bene cosa dire riguardo ai riferimenti, mi chiedono se pensavo ad un determinato film o a dei paragoni, ma in verità io non pensavo a niente. Non avevo neanche tempo di pensare, ero troppo concentrata su quello che stavo facendo. È qualcosa che si è sviluppato strada facendo.”
J.P.: “Non è facile da spiegare, ma mi interessava il tentativo di esplorare i vari lati dell’essere uomo e della mascolinità che fa sempre capolino insieme alla tenerezza di un personaggio che cerca di dare una mano, che vuole fare un cambiamento. Eravamo interessati ad esplorare entrambi questi elementi. È un viaggio nell’inferno dell’esperienza soggettiva in cui a volte si ha difficoltà a capire cosa è reale e cosa no. È tutto partito dal voler raccontare il personaggio e fare in modo che il film diventasse quello che lui voleva essere, che dettasse la direzione. Perché questa è la cosa importante: quando cedi le redini del controllo e lasci che il film ti guidi. Poteva diventare un film di genere con un uomo che alla fine salva tutte le persone, invece ci chiedevamo ogni volta “Cosa potrebbe essere questa scena? Cosa può contenere o voler dire?”. E Lynne in questo è stata molto brava, nel tenere sempre insieme gli elementi. C’è una scena, quella in cui lui si sdraia vicino al cecchino per terra, si prova una specie di simpatia per quest’uomo che ha ucciso la madre del mio personaggio, ma che ti rendi conto essere prigioniero di questo mondo. Lynne è riuscita a trovare l’equilibrio dei personaggi.”
Joaquin, leggendo la sceneggiatura, ti è venuto da aggiungere qualcosa di personale, soprattutto nell’uso del corpo che è predominante nel film?
“È una cosa di cui ho preso consapevolezza immediatamente devo dire. L’idea che dovessi mettere su chili e assumere quella stazza, non so perché l’ho fatto ad essere onesto, però era una cosa di cui abbiamo discusso e parlato con Lynne e poteva essere attinente con il personaggio. L’idea di una persona non più all’apice del suo aspetto, ma che comunque prima era stato un tipo in forma. Questo ci piaceva e sentivamo dovesse essere così.”