Boris Lojkine su La storia di Souleymane: “Voglio raccontare le persone di cui nessuno parla”
Il regista francese Boris Lojkine è a Roma per presentare alla stampa La storia di Souleymane, premiato a Cannes 2024 e in sala il 10 ottobre. Ecco le sue parole.
La critica si interroga, a Cannes, sul senso del finale (aperto). La risposta arriva a Roma, qualche mese dopo, tra il serio e il faceto. Boris Lojkine, il regista di La storia di Souleymane, dal 10 ottobre 2024 in sala in Italia per Academy Two, non si sbilancia. “Non contate su di me per avere delle risposte. Quello che avete visto, avete visto!”. Non intende chiarire tutto, del suo premiato terzo lungometraggio di finzione (ha un passato da documentarista) che a Cannes 2024, sezione Un Certain Regard, ha vinto il Premio della Giuria e quello per il Miglior Attore, il non professionista Abou Sangare. È la cronaca serratissima, tre giorni in tutto, della vita di Souleymane, immigrato guineano che di mestiere fa il rider ed è animato dalla speranza di ottenere il diritto d’asilo in Francia. Per trovare la faccia giusta, quella del protagonista, Boris Lojkine ha dovuto faticare. Ma ne è valsa la pena.
Non si è trattato del solito processo di selezione e ricerca; è stato laborioso, a maggior ragione perché si è trattato, per la maggior parte, di non professionisti. ““Abbiamo fatto casting per due mesi e mezzo ad attori non professionisti. Cercavo rider originari della Guinea e ne ho incontrati molti per le strade di Parigi. Abbiamo riunito circa 200 persone. Abou in realtà l’abbiamo trovato ad Amiens, grazie a un’associazione che ci aveva permesso di rintracciare altri 25 giovani guineani. Abou è guineano, non ha mai fatto il rider in vita sua e non ha mai richiesto il diritto d’asilo, ma aveva molte cose in comune con il protagonista. La storia è di Souleymane, ma in un certo senso è anche la sua. Quando ho incontrato Abou Sangare e gli altri interpreti, ho adattato lo script per venire incontro a lui e agli altri”.
In un film come La storia di Souleymane, i dettagli sono fondamentali
Per raggiungere la credibilità giusta, Boris Lojkine ha dovuto darsi da fare, non soltanto a cercare i volti appropriati. “Mi sono documentato molto, prima di cominciare. l dettagli che arrivano dalla vita delle persone sono preziosi, perché poi li trasformi in realtà, in scene. Prima di tutto ho incontrato tanti rider, intervistandoli; alcune interviste sono state molto lunghe”. Detto questo, per quanto il passato dell’autore sia ancorato nel perimetro del documentario e La storia di Souleymane sia un tipo speciale di fiction, devota alla nuda realtà, non è il caso di sovrastimare il retaggio del realismo sociale. Altro che ibrido di realtà e documentario, il film è pura finzione. Con le dovute precisazioni, è chiaro.
“Questo film non può essere considerato un documentario, perché il processo di realizzazione di un film di fiction e di un documentario non coincidono. Io non riprendo queste persone nella loro vita, tutte le scene sono state provate, ripetute e scritte. Certo, il casting è stato fatto tra non professionisti. Gli attori, nel quotidiano, magari fanno cose simili a quelle rappresentate nel film, ma non viene mai presentata la loro vera vita”. Un aspetto interessante, parlando di tecnica e logistica delle riprese, è stata la flessibilità della squadra che ha supportato il regista. Scene differenti, set differenti, necessità differenti, personale differente. “Con la troupe, si è trattato di un dispositivo variabile. C’erano giorni in cui mi servivo di molte persone, come nel caso delle scene girate nel ricovero; lì c’erano tante comparse ed era necessaria la presenza di diversi team, per gestire la cosa. Altre volte eravamo in quattro o cinque, al di sotto dello standard minimo per il cinema di finzione che di solito, in Francia, è di dieci dodici persone. Solo così abbiamo potuto girare in mezzo a questo gran casino (testuale, ndr); grazie a questa soluzione. Dà lo stile al film e mostra l’energia della città”.
La rapidità e l’immediatezza sono conseguenza di una forte scelta di regia. Succede tutto nei tre giorni che precedono il temuto colloquio per la richiesta del diritto d’asilo. Non seguiamo Souleymane in presa diretta, ma poco ci manca. Boris Lojkine quest’idea l’aveva in testa “dall’inizio. Era evidente, per me, che se sceglievo un rider che si muove velocemente dentro la città, anche il film avrebbe dovuto essere rapido e avere una breve durata. D’altronde, il racconto esigeva realismo e un giusto approccio. La giusta distanza, è meglio. “Quando ci si impadronisce di una storia del genere, bisogna essere onesti e coerenti al 100%. Non è facile. Per raccontarla, bisogna abbandonare il nostro ruolo di uomini bianchi e adottare il punto di vista altrui, mettendoci all’ascolto. Ci vuole umiltà. Con Souleymane credo di esserci riuscito; non è stato facile girarlo, io lo chiamo un film sportivo. Ma ha coerenza, a tutti i livelli, anche in relazione a come sono stati spesi i soldi”.
I vantaggi di girare con attori non professionisti e la verità su Parigi
Ulteriore elemento di coerenza, per Boris Lojkine che gira La storia di Souleymane, è la predilezione per la freschezza e la verità (non mediata da artifici) di attori non professionisti. Una scelta che sta alle radici del suo senso per il cinema. “Amo molto lavorare con non professionisti, è vero. Nel mio primo film, Hope, non c’erano professionisti. Nel secondo, Camille, era un po’ al 50%. Qui sono quasi esclusivamente non professionisti. È una cosa che amo e credo spieghi perché il mio cinema è diverso: tutte le scelte che faccio in un film dipendono dal fatto che io lavoro con non professionisti. Bisogna gestirli in un certo modo. Se hai una sceneggiatura e gli dici, imparatela a memoria che domani ripeterete queste scene, il risultato sarà catastrofico!”. Ancora una volta, la disponibilità all’ascolto è fondamentale. ““Penso che per far andar bene le cose sia necessario ascoltare. Spesso si parla della regia come di direzione degli attori, nel mio caso è diverso, è più un ascolto. Più si ascoltano gli interpreti, più si capisce, più è facile trarne il meglio”.
Una disposizione che lo ha accompagnato in ogni fase della sua carriera. Anche, specialmente, all’inizio. “Quando ho cominciato a fare film ho incontrato la direttrice del casting dei film di (Michael) Haneke. Mi ha detto una frase che mi è piaciuta molto: quando lavori con non professionisti, trovi sempre qualcosa di bello in loro. Lo scopo del tuo lavoro è di portarli in scena senza rovinarli. Non stai allenando futuri attori; devi stare attento a portarli sul set, mantenendo quel che di prezioso portano dentro”.
La storia di Souleymane è un film in sintonia con i tempi che corrono? Per Boris Lojkine, la risposta è affermativa. “Il contesto politico attuale rende più urgente raccontare questo tipo di storie. Voglio raccontare le persone di cui non parla nessuno. Per riuscirci, devo uscire da me stesso. Da un po’ di tempo, da noi e anche qui in Italia, le migrazioni hanno un posto enorme nei discorsi dei politici. Lo stesso nei telegiornali; ma i migranti sono sempre disumanizzati, delle figurine. Per me è importante riumanizzarli, per far vivere allo spettatore un’esperienza di un’ora e mezza attaccati alla bicicletta di Souleymane, trasmettendo una sensazione fisica. Vedremo come uscirete dal film, se guarderete i rider e il mondo in maniera diversa. Per questo motivo il finale è aperto”.
Parte della volontà di demistificazione della realtà (sociale, psicologica) che circonda il protagonista è anche il modo con cui viene raffigurata la città di Parigi, il teatro della lotta di Souleymane per un avvenire migliore, più sicuro. Boris Lojkine vuole smitizzarla, per il suo bene. “Parigi è protagonista del film, indiscutibilmente. Non mi piace come il cinema francese la racconta: o molto turistica o incredibilmente pulita. Non è questa la città che abito. Ho cercato di presentarla in modo diverso”. C’è una ragione cinefila, dietro a questo approccio ostinatamente realista. “Devo molto al cinema americano degli anni ’70, o a quello più recente dei fratelli Safdie. Mi colpiscono più dei Dardenne, che ammiro molto anche se non sono il mio modello, nemmeno il cosiddetto cinema sociale. Sono altri i fratelli che mi ispirano; ce ne sono tanti, nel cinema! Mi piace riprendere Souleymane in bici tra le macchine, in mezzo ai passanti. C’ero anche io sulla bicicletta a girare. La scena in cui Souleymane entra nella metropolitana e la porta si richiude dietro di lui, è molto interessante e non era prevista in quel modo. Meglio una scena di questo tipo, però, che ore e ore di colloquio (il finale del film, ndr)”.