Da Criminal a Mangia Prega Ama: il ricordo gustativo in 5 film
Labili, incandescenti, talvolta piccanti, succulenti e ambigui: i ricordi gustativi, strascichi di ciò che abbiamo mangiato, annusato, preparato, rimangono intrappolati tra il palato e la mente, in un labirinto senza via d’uscita che torna a martellare il pensiero, rimembrandoci chi siamo e da dove veniamo. A dirlo lo stesso Ludwig Feuerbach il quale sosteneva, in una famosa opera, il legame direttamente proporzionale tra ciò che ingeriamo e il modo in cui viviamo: i cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello, in materia di pensieri e sentimenti. Una filosofia che nel tempo è trapelata anche dallo schermo cinematografico, sfiorando le pupille e le papille in un susseguirsi di fotogrammi capaci di immergerci nella cultura di popoli differenti. Così non c’è stupore nel vedere la carbonara fare capolino nell’italianissimo Noi e la Giulia o scorgere le stranezze alimentari di Una Mamma Per Amica e ancora pietanze come riso, sushi e sashimi nei film e cartoni d’origine giapponese o calorici big mac nei film americani (salvo qualche poetica eccezione, vedasi Pulp Food).
Ma il punto del nostro disquisire oggi si addentra verso altri campi, minati da una spia variabile e fragile: la memoria; nello specifico la memoria di ciò che si mangia come traslitterazione di ciò che siamo stati, siamo e saremo. Ad inaugurare il nostro percorso la storia narrata da Ariel Vromen in Criminal in cui Kevin Costner interpreta Jerico: un criminale sul braccio della morte usato come cavia per recuperare i ricordi dell’agente segreto Bill Pope (Ryan Reynolds).
Criminal: “Preparo i waffles e vado via“
Inizialmente l’operazione sembra non essere riuscita ma pian piano il vissuto di Bill inizia a fare breccia nella testa di Jerico, iniziando a mutare dall’interno il modo di agire di un uomo che aveva passato metà della sua vita dietro le sbarre e conosciuto solo odio, disprezzo e mancato rispetto della legge. E invece inaspettatamente Jerico si trasforma in una persona migliore, fa e dice cose che non appartengono per niente alle sue corde e, parlando con la vedova dell’agente Pope, la stupisce con frasi, modi di fare e situazioni del loro vissuto. A tal proposito è bello notare come la molla che sblocca la diffidenza nei confronti dell’ex detenuto sia racchiusa nel ricordo della preparazione della cena: “… venerdì sera: tu prepari il pollo, io i waffles”. E quando la donna (Gal Gadot) gli chiede di andare via, lui con nonchalance risponde: “Preparo i waffles e vado via”, come se fosse una questione di vita o di morte, come se davvero non potesse farne a meno. Una memoria che concilia inoltre col ricordo dell’odore di “pesce e patatine” della prima auto acquistata, stridendo al contempo col panino divorato di fretta in un fast food.
La Città degli Angeli: “Ti piace Hemingway? […] Non dimentica mai di descrivere il sapore delle cose
Mangiando le ostriche con quel forte sapore di mare e quel leggero sapore metallico, bevendo il loro liquido freddo da ogni guscio, accompagnandolo con un gustoso vino frizzante, quella sensazione di vuoto sparì e cominciai ad essere felice.
City of Angels – La città degli angeli di Brad Silberling racchiude una delle scene più poetiche e toccanti del cinema. Premesso che già di per sé la storia d’amore tra un essere ultraterreno (Nicolas Cage alias Seth) e una comune mortale (Meg Ryan alias Dott.ssa Maggie Rice) ha del romantico, ciò che più crea empatia col personaggio è la voglia di provare delle sensazioni. La bellezza della mortalità, l’incomprensione dell’effimero, vengono esaltati dalla sfrenata voglia di Seth di provare il dolore, il sonno, il piacere e… il sapore delle cose. La lettura di Hemingway sottolinea la bellezza del gusto, spingendoci a ricordare ciò che mangiamo, stringendo forte dentro di noi tutta la magia che si può provare in un semplice morso e custodendola in eterno.
Ratatouille: “sia la cena che il suo artefice hanno scosso le fondamenta stesse del mio essere”
Talvolta il ricordo gustativo può rivelarsi una catarsi del’essere umano e cambiare, attraverso la connessione col passato, il modo di vivere il presente e il futuro. È quello che succede all’incontentabile critico gastronomico Anton Ego nel film d’animazione della Disney Pixar, Ratatouille. Il primo boccone di quel piatto semplice ma raffinato gli provoca il forte impatto di una memoria, trasportandolo dalla sala del ristorante alla cucina materna. Nel piatto di Rémy il critico riconosce una gioia impalpabile intrisa da una nota di nostalgia: l’uomo corrucciato e il bimbo consolato dalla madre si incontrano e si abbracciano in un ipotetico mondo parallelo; da quel momento in poi il cibo per Ego non è più materia da esaminare, criticare, stroncare, bensì esperienza da vivere e ri-vivere.
Amore, cucina e curry: “Perché cambiare una ricetta che ha 200 anni?”
Per il giovane Hassan i piatti sono come dei fantasmi, servono ad estrapolare i ricordi che altrimenti non riuscirebbero a tornare. Dal curry al cardamomo, dal coriandolo al peperoncino, le spezie usate dal futuro chef stellato spolverano di colori ed emozioni la pellicola di Lasse Hallstrom. Il protagonista (interpretato da Manish Dayal) intinge ogni fotogramma della commedia sul buongusto con gli aromi della sua patria, ognuno dei quali corrisponde ad uno spaccato di vita vera, vissuta, impiantata nella mente. La scatola con le spezie appartenuta alla madre è una sorta di vademecum che non cambia, nonostante l’innalzarsi dei gradi dietro ai fornelli, il cambio di ambienti ed abitudini, rimane lì sepolta nel cuore di Hassan per ribadirgli ogni giorno e ad ogni ora il luogo dal quale proviene, quell’India caotica, sapida, allegra, verace come un riccio di mare crudo che si scioglie in bocca e rivendica la sua origine. Così, dalla cucina tradizionale a quella stellata il passaggio è breve ma la mutazione stravolgente: più logica, più stile, più freddezza. Eppure quel riccio di mare crudo torna a vendicare la sua appartenenza a un luogo, torna a gridare l’esistenza di un universo fatto di affetti. In Amore, cucina e curry il cibo è memoria che passa dalle pupille gustative ignorando la forma: un passaggio inverso e al contempo simile a quello subito da Ego. Un sapore che si piazza in bocca e si fa largo tra mille altre pietanze sublimi, arriva al cuore e lo spiazza, lo tramortisce col pianto dolce di una nostalgia costruttiva, una nostalgia che è cambio di rotta, intesa di sé.
Mangia Prega Ama: “è un imperativo morale mangiare e godersi la pizza”
Mangiare, pregare, amare sono le tre colonne portanti per stare bene col mondo e con se stessi e Julia Roberts (che interpreta la protagonista Elizabeth Gilbert) lo sa bene o, forse sarebbe meglio dire, inizia ad apprenderlo. Giunta nella bellissima capitale italiana la donna impara a lasciarsi andare, adagiandosi sui ritmi di una vita più soft in cui il piacere non per forza deve seguire le rigide regole della routine e della razionalità. Il cibo baciato, assaporato, gustato, sussurrato tra le labbra è protagonista di un rito di scoperta senza eguali. A differenza delle pellicole dette prima nessun ricordo viene evocato dalla pizza o dagli spaghetti al pomodoro, che però si fanno portatori di un valore inestimabile. Quante volte un uomo si è preoccupato della ciccia in eccesso? Rammenda Elizabeth all’amica, per poi farle capire che “è una pizza margherita a Napoli, è un imperativo morale mangiare e godersi la pizza”. La linea diretta tra cibo e calorie viene manomessa alterando l’ultimo elemento in piacere. Perché questo il cibo è e deve essere, sia nei film che nella vita reale: un piacere degno di essere ricordato, una memoria che riesca a intrappolarsi in fondo al palato e a farci sentire, anche solo nel frangente di un morso, felici di essere umani, felici di essere vivi.