Blade Runner 2049 – la colonna sonora di Hans Zimmer tra classicismo e tecno
Uno dei tasselli più belli di Blade Runner 2049 è la colonna sonora composta da Hans Zimmer con una tracklist che si destreggia tra classicismo e tecno palesandosi all'udito con un audio sporco e nebuloso, proprio come l'intera Los Angeles.
Eterea, assordante, enigmatica, la colonna sonora di Blade Runner 2049 (qui la recensione del film) viaggia verso un futuro che sa terrorizzare psichicamente, in cui l’umanità è svuotata, schiacciata dal progresso e cieca a tal punto da non vedere più la direzione verso la quale sta proseguendo. Al pari del suo predecessore, anche Denis Villeneuve ci trascina in una Los Angeles perennemente sporca e buia, tra le gerarchie di una società in cui replicanti e umani hanno apparentemente imparato a rispettare il loro posto; un mondo che si muove ansiosamente verso il futuro e che della civilizzazione è succube, mentre langue di sentimenti.
Il sequel di Blade Runner cerca di dare risposte al quesito che per oltre 30 anni ha tartassato i fan del film di Ridley Scott adagiandosi su una sceneggiatura che, se da una parte risponde, dall’altra mantiene viva la fiamma della curiosità. Ad irrorare la trama provvede poi l’intera macchina cinematografica, con la strepitosa realizzazione di luoghi che sono essi stessi un modus vivendi e una colonna sonora che si stacca completamente dal servilismo nei confronti delle immagini per vivere di vita propria in una dimensione tecnologicamente ultraterrena nella quale il progresso si lascia ancora affascinare dal passato.
Il premio Oscar Hans Zimmer firma, insieme a Benjamin Wallfisch, la colonna sonora di Blade Runner 2049
L’impalcatura sonora del film con Ryan Gosling ed Harrison Ford si dipana lungo cerchi concentrici e infiniti mostrando un’iniziale epicità che, con l’innalzarsi del volume, fa aumentare di conseguenza la tensione fino a fondere classicismo e tecno. Ci sono spezzoni in cui due musicalità completamente differenti sembrano accavallarsi, come se il progresso avesse necessità di appoggiarsi al passato per palesarsi all’udito. Il Main Theme di Johann Johannsson è un aggancio formidabile che spiana la strada al compositore musicale di opere come Inception, Interstellar, Il gladiatore.
Hans Zimmer compone una melodia solenne come il grido composto di una tribù. I suoni sordi che ascoltiamo sembrano provenire da mondi lontani rispetto a quello in cui viviamo e poco importa se la lontananza è intesa indietro o avanti nel tempo, poiché i tonfi che caratterizzano la colonna sonora di Blade Runner 2049 potrebbero provenire da un rullo di tamburi in uno sperduto altopiano indiano o dall’esplosione di una fabbrica in una modernissima città del Nuovo Mondo. Ma ciò che la musica vuole comunicarci è che, da qualunque posto essi provengano, è lontano da quello che noi attualmente definiamo casa, un posto selvaggio nell’animo, uno di quelli di cui aver paura. Terrore che però sa sciogliersi adagio, come gocce di tranquillante nell’acqua limpida, sa alleviare la perplessità per farsi docile, non troppo da farci rilassare, abbastanza per permetterci di entrare senza timore in una nuova epoca.
La parte iniziale del film, quella in cui l’agente K (Gosling) va a “ritirare” il signor Morton (Dave Bautista), è caratterizzata da tutto ciò. La tracklist di Blade Runner 2049 sa però anche essere pura poesia amorosa, come nel caso della traccia Rain in cui lunghe e sottili note disegnano le linee immaginarie di un sentimento amoroso irrealizzabile rimanendo a lungo sospese come labbra che attendono eternamente un bacio.
Musica che sa indagare e divenire grottesca, calandosi nella forma mentis di chi sa vedere oltre ma è privo di un’anima. La traccia Wallace inizia con un suono metallico come la lama di un arrotino divenendo man mano più rude, come se le fauci di un mostro meccanico si spalancassero. Una sonorità che rispecchia per filo e per segno l’habitat in cui veniamo convogliati e nel quale facciamo conoscenza del signor Wallace (Jared Leto); un inno di acclamazione, una litania nell’era del progresso che non conosce divinità surreali, solo uomini che sanno osare e concedere il dono della vita preconfezionata. La musica che suggella la conoscenza con uno dei personaggi più belli di Blade Runner 2049 è un sospiro che incute timore e voglia di curiosità proprio come quella che si potrebbe provare davanti al Creatore.
Sempre legata alla figura del signor Wallace è la traccia Her Eyes Were Green, in cui Rick Deckard (Harrison Ford) si ritrova davanti la defunta Rachel (Sean Young) o, meglio, la sua fotocopia. Ma l’uomo non si lascia ingannare, ricorda bene il colore dei suoi occhi, erano verdi. Un dettaglio al quale non avevano fatto caso, un dettaglio che risulta fatale e che si riversa con la stessa fatalità sui soffi del flauto che come folate di vento inondano la mente dell’ex protagonista e quella dello spettatore.
Particolare importanza assume il pezzo All Best Memories Are Hers che associa all’armoniosità degli strumenti musicali picchi intensi in cui la creazione prende forma. La creazione dei ricordi è, dopotutto, quanto di più bello possa esserci in Blade Runner 2049 unito alla consapevolezza dell’agente K di lasciarsi andare, un addio che trova il suo preludio in Tears In The Rain.
La colonna sonora di Blade Runner 2049 ha un audio sporco e nebuloso come l’intera Los Angeles.
Un suono che non si lascia afferrare e che risulta perennemente falsato anche e soprattutto grazie all’uso dei sintetizzatori che provvedono a riempirci la testa con una tavolozza di suoni astratti e perfettamente in linea con l’intera opera cinematografica. La soundtrack del film non domina la scena ma si lascia dominare da essa, divenendone un tutt’uno e risultando necessaria.
Una nuvola omogenea di note che emoziona alla massima potenza solo se accostata alle immagini e ai dialoghi e che trova la forza di lasciare cassetti aperti nei quali custodire il passato, che torna a far breccia negli ologrammi di Marilyn Monroe, Frank Sinatra, Elvis Presley.
La prima canzone di Frank Sinatra l’ascoltiamo solamente, venendo prontamente informati che si tratta di un pezzo del 1966. Riconosciamo in quelle note e in quella voce Summer Wind e ci consoliamo all’idea che anche nel futuro ascolteremo buona musica. Ma i momenti migliori sono quelli in cui ci addentriamo nell’hotel in cui si è rifugiato Deckard e i fasti del passato prendono vita a colori o in bianco e nero facendo in modo che un Sinastra in miniatura si palesi dentro un jukebox per cantare One for My Baby (And One More for the Road), una canzone ritmicamente insistente e in grado di rappresentare tutta la bellezza malinconica di una metropoli cancellata dagli eventi.
A queste si uniscono pezzi intramontabili come Can’t Help Falling In Love e Suspicious Minds di Elvis Presley, anche se non riusciamo a godercele fino in fondo.