Iddu – L’ultimo padrino: la malvagità domina la colonna sonora del film

La musica, in Iddu – L’ultimo padrino, precede le immagini e le sensazioni; è una mano che da dietro ci accompagna, sempre verso nuove bugie, vendette, situazioni scomode e illegali. Il film diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ammette che ci troviamo “da qualche parte in Sicilia” e la colonna sonora ce lo conferma pedissequamente, stilando stalattiti di suoni ancestrali, popolari, così assillanti da farci sentire parte di qualcosa di più grande e incontrollabile: un mondo oscuro dal quale non ci si può tirare indietro e nel quale si resta incastrati, letteralmente ipnotizzati da una musica che adagio ci dirotta verso sonorità orientali, fino a colpire duro e a esplodere, facendoci sentire sulla pelle l’ansia di essere in un contesto chiuso, incapaci di uscire da certe logiche criminali intramontabili.

iddu l'ultimo padrino cinematographe.it
Ph. Giulia Parlato

Firmata da Colapesce – al secolo Lorenzo Urciullo, che si cimenta in un lavoro da solista (esatto: qui non si parla del duo Colapesce Dimartino) – e disponibile in digitale e in vinile col titolo IDDU – Sicilian Letters, la soundtrack del film con Elio Germano e Toni Servillo protagonisti prende spunto dai grandi Maestri italiani come Ennio Morricone, Egisto Macchi e Fiorenzo Carpi, nonché dalla tradizione popolare, che irrompe con dolce prepotenza in alcuni momenti del film, per rimarcare gli snodi di una sceneggiatura che sa incunearsi nell’apparizione, lasciando che il fantasma del padre entri nella vita del figlio (Matteo, interpretato da Elio Germano), confortando, rimarcando e cullando.

La porta d’accesso a Iddu – L’ultimo padrino è un casolare isolato in cui un uomo mormora al figlio ordini sul letto di morte, citando un tesoro di famiglia (“u pupu”), ma la prima diapositiva ci porta a guardare negli occhi un capretto: simbolo d’innocenza ma anche di sacrificio, quello da compiere per dimostrare di essere adulti. Animale che in una certa tradizione potrebbe rievocare un rito satanico e che certamente la prospettiva fotografica ci induce a leggere, condizionata all’ascolto da Robot di Maurizio Palmacci: una canzone in pieno stile tecno e disco in cui il suono diviene frastuono metallico e alienante, a tratti stridente con quell’aurea di antico che il film trasuda fin dal titolo.

Successivamente il film ci trascina faccia a faccia con Toni Servillo, il quale presta il volto a Catello Palumbo, da tutti chiamato “Preside” per via della sua cultura e dei ruoli precedentemente ricoperti. L’escremento di un volatine lo coglie sul petto mentre passeggia insieme a una guardia, nei momenti che precedono al sua scarcerazione. Ad attenderlo al di fuori del cancello, oltre alla riconquistata libertà, un ragazzo apparentemente poco sveglio che da lì a poco scoprirà essere suo genero, al quale la moglie (interpretata da una fantastica Betty Pedrazzi) ha dato il compito di riportarlo a casa.
A corredare questa scena, in bilico tra l’allegria e lo sconforto, Ballo Ballo (1982) di Raffaella Carrà, famosissima sigla del programma Fantastico, scritta da Franco Bracardi e Gianni Boncompagni.

Le sonorità metalliche ritornano nuovamente in un’altra scena che si focalizza sui pensieri di Matteo (Germano), mostrandoci la scena del funerale e viaggiando poi all’indietro, per farci scorgere la sequenza di un arresto e il sequestro del “pupo”. La confusione mentale trova collocazione in Feel di Cormac, amalgamandosi alle movenze di una soundtrack in cui sembra di sentire il suono delle campane, salvo poi intrufolarsi nel cullare di un trombone stanco: un suono sfinito tanto quanto il protagonista di Iddu – L’ultimo padrino, che vediamo intento a dettare le risposte che poi saranno ridotte in pizzini.

Elio Germano non ha nessuna paura e la colonna sonora di Iddu – L’ultimo Padrino lo ribadisce

Il singolo del gruppo britannico Eighth Wonder, intitolato I’m Not Scared e pubblicato nel 1988, viene proposto per ben due volte nel film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza e in entrambi i casi lo scenario visivo proposto è analogo. Immediatamente dopo aver ricevuto la lettera dal suo padrino, interpretato da Toni Servillo, il personaggio di Elio Germano si reca in una discoteca dove una bella ragazza gli danza dinnanzi, invitandolo poi ad andare a letto insieme. Ma gli affari lo chiamano ed è costretto a declinare. Sarà la forzata e ancor più acuita carcerazione domestica, causata dall’arroganza di un vicino che ha deciso di aprire una finestra abusiva che dà sul suo cortile (quello in cui si concede l’ora d’aria) a farlo fantasticare circa l’intrusione in casa dell’uomo, che però non finisce in nessun modo drastico, poiché in quel dedalo di stanze, luci e scale, Matteo apre la porta e si ritrova nella discoteca in cui lo abbiamo già visto, con la solita ragazza che lo attira a sé, lasciando lo spettatore in bilico tra sogno e realtà, ma con in testa la bella canzone citata prima, nelle cui parole resta inciso questo senso di potenza, la voglio di ribadire l’assenza di paura.

La colonna sonora sa affondare le radici nella cultura pop, amalgamandola a una nota che sa di antico, di incanto sporco quanto sbiadito; note che sussurrano all’orecchio, incantando come un serpente a sonagli, quasi ad anestetizzare la violenza latente di questa storia, ad attorcigliarsi all’astruso canto di nonni scomparsi, nella criptolalia di un suono che tiene sempre il passato in ostaggio, seminando sassolini che poi esplodono in scene apparentemente insensate, come quella in cui Elio Germano e Barbora Bobuľová danno fuoco alla vigna del vicino. Qui il fantasma del padre appare a Matteo, dandogli una strigliata e lasciando che Douce dame jolie di Roland Hayes fluisca libero in sottofondo.

Dobbiamo attendere di avvicinarci alla seconda parte del film, e poi direttamente ai titoli di coda, per riconoscere apertamente il tocco di Colapesce: il brano Felice chi non è ancora nato è una lastra di ghiaccio in cui scivola la scena dell’arresto di Francesca (Antonia Truppo), che avrà conseguenze drammatiche per chi non naviga agevolmente nella malavita e sottolinea altresì un pensiero del boss, drastico quanto veritiero. Una filosofia che scarnifica la vita stessa per ridurla in polvere, in passaggio immediato e quasi insensato: è come bere un sorso di luce nel buio, lo stesso che alla fine affiora, insieme a un senso di impotenza dilagante, alla sensazione che nulla possa cambiare, o almeno non così in fretta e così nettamente come si vorrebbe.
Una malvagità che striscia incontrollabile e che si palesa nella canzone posta nei titoli di coda e intitolata, appunto, La malvagità.

L’autore esplora tutte le angolature di un sentimento implacabile e insito nell’uomo, che si ciba di lacrime e dolore; è insensibile a ciò che scalfisce l’essere umano e gode del malessere. Colapesce paragona la malvagità alla stella e al sasso, rimarcandone l’immobilità e la lontananza dal mondo sensibile. Inserendo elementi come il fuoco e le fiamme, ma anche gli astri, il cielo e l’amore, l’autore sembra mettere in risalto la bellezza, eppure la scalfisce e demolisce a ogni strofa, stroncando nella crudeltà anche il minimo cenno di speranza. Un brano che ci divora fino a ingoiarsi la nostra anima in un turbinio di note in cui ci sembra di morire e rinascere all’infinito.

Riportiamo di seguito il video e il testo de La malvagità, unica canzone inedita presente nel film, scritta appositamente per Iddu – L’ultimo padrino. E si vede, perché è azzeccatissima!

La malvagità appartiene all’uomo
Si muove di giorno
La notte nel buio se ne sta
È una stella

La malvagità ride, gioca e spara
A volte si pente se cade
Nel buio se ne sta
È un sasso

E non le importa di nessuno
Se stai male, forse meglio
Le promesse sono fiamme senza il fuoco

E quando canta a squarciagola vedi il diavolo
Un testamento senza eredità
Si prende pure il cielo

La malvagità non conosce il freddo
Si scalda col pianto
L’amore è una vigliacchеria
È sabbia

E non le importa di nessuno
Se tu soffri, tanto mеglio
Le promesse sono fiamme senza il fuoco

E quando canta a squarciagola vedi il diavolo
La morte è solo una formalità
Si prende pure il cielo

Na-na-na-na-na
Il cielo

IDDU – Sicilians Letters è scritto da Colapesce in collaborazione, in fase di scrittura e produzione, con Federico Nardelli. Confluiscono nella soundtrack anche gli archi di Davide Rossi, la tromba di Alessandro Bottachiari e la Schola Gregoriana Mediolanensi (coro).