La Corrispondenza: una colonna sonora elegante e suggestiva
La Corrispondenza messa in atto da Giuseppe Tornatore nella sua ultima pellicola non avrebbe avuto la stessa eleganza se non fosse scivolata tra le note sinuose composte da Ennio Morricone, candidato all’Oscar per The Hateful Eight di Tarantino (nel cui sodalizio artistico c’è lo zampino del regista siciliano).
Nell’addentrasi nella storia d’amore tra Amy Ryan (Olga Kurylenko) e Ed Phoerum (Jeremy Irons) si rischia di pungersi con le spine della follia passionale e dei limiti temporali; si rischia di rimanere intrappolati nel frammentato universo del ‘vorrei ma non posso’, nei limiti di una storia che, come tutti i grandi amori, custodisce il seme dell’impossibilità. La musica del grande Maestro sa essere dosata, suggestiva e pensata. Le dita affondano sulla tastiera con tutto il peso che hanno in corpo, ogni nota è gridata con l’anima, impazzisce sotto i colpi del sentimento senza schivare i colpi.
La Corrispondenza: soavi violini si destano nella colonna sonora di Ennio Morricone
In La corrispondenza la melodia ammortizza la disperazione, lenisce i lividi che Amy, studentessa di astrofisica che nel tempo libero fa la controfigura per cinema e tv, ama infliggersi per espiare un vecchio senso di colpa. Così il suo corpo è invaso dalle fiamme o sta per cadere di peso mentre in sottofondo ascoltiamo Stuntgirl: parte con un filo di suono per poi innalzarsi gradatamente, divenendo ossessionante e imperterrito. Più si alza la tensione e più le note aumentano i battiti, diventano acute; scandiscono le azioni, le corse, evidenziano gli ostacoli e poi appassiscono mutando la modulazione del suono e rendendolo più dolce.
L’asse portante della soundtrack è senza dubbio La Corrispondenza che si districa tra pianoforte, flauto dolce e chitarra cullando le immagini che si muovono sullo schermo e imbastendo lo spettatore con un senso di calma interiore, lapalissiana, toccante e sconvolgente come le mani astute di una massaggiatrice, si incanala nel petto facendosi strada nel cuore con gesti sempre più incessanti, note pressanti, assidue, ripetitive, ossessionanti, che martellano lo schermo e strappano l’anima lasciandola navigare nell’abisso di una solitudine mai pronunciata. Il professore di astrofica è sparito nel nulla, si è dileguato nel saluto di una mattina d’inverno lasciando in pegno una stella e un saluto fatto da lontano. Da dove invia quelle lettere? Come fa a sapere cosa sta facendo la sua amata? A contemplare i suoi passi, i suoi pensieri anche dopo aver attraversato il confine della vita?
Una stella, miliardi di stelle è il fulcro di una sintesi che principia con quattro note, sempre le stesse, sorde e accecanti nelle prime quattro battute, intarsiate dalla carezza avvolgente sulle corde di una chitarra. Si evolvono adagio in frammenti striduli e strazianti, sulle cui vene impalpabili scorre il sangue amaro della distanza. Un respiro, però, a un tratto spalanca il fiato, lascia entrare nell’udito gocce d’acqua di rosa. Dalla semplicità alla complessità dell’insieme strumentale per poi riscendere docilmente verso la normalità melodica, in picchi in cui l’elettricità delle note raggiunge vette romantiche; aghi senza punta sfiorano il cuore, iniettano mille lettere d’amore nel corpo, inondano gli occhi di lacrime sottili come rugiada: l’eros si arrende all’amore eterno.
Si arrende a Amy, determinata a tutti i costi a districare il nodo di incertezze e misteri attorno al quale resta avvinghiata la scomparsa di Ed. La casa sul lago (che è anche il titolo del brano) è il nido d’amore dei due amanti clandestini e la ragazza attraversa le acque guidata da un Caronte sempliciotto per approdare sulle sponde di un’isola famigliare, dannata dalle ombre lunghe e colorate dei ricordi. Viole, violini e violoncelli interferiscono col pianoforte creando nuance delicate e profonde come gli abissi di un’anima in pena, temeraria e nuda.
Una lama lunga di violino trafigge lo sguardo e il cuore avviandosi verso la conclusione della pellicola, rimarcato dalla custodia del corpo di Amy esposto in bella vista nel corso di una mostra. Il suo dolore ha ‘rovinato’ la scultura, abbellendola e lasciando sul gesso i segni del dolore. All’artista (e di rimando allo spettatore) resta il sospiro infinito di un mistero che bagna il volto e lenisce l’anima.