127 ore: analisi del finale del film di Danny Boyle con James Franco
127 ore è un film di Danny Boyle del 2010, interpretato da James Franco, Kate Mara e Amber Tamblyn. Ispirato al libro Between a Rock and a Hard Place, 127 ore narra la storia vera di Aron Ralston, un giovane appassionato di escursioni e alpinismo che, durante un’esplorazione solitaria nell’angusto Canyon, scivola in un crepaccio e rimane incastrato con un braccio tra due rocce.
In quel posto, desolato e inospitale, Aron si troverà faccia a faccia con la fame, la sete, il freddo e il caldo torrido, provando a sopravvivere con le poche cose a sua disposizione, registrando i suoi giorni di prigionia con una videocamera e sfidando la sua paura della morte e della solitudine compiendo un gesto estremo.
C’è profezia e predestinazione in 127 ore, Boyle e Ralston, grazie all’unione di cinema e narrazione, riescono a portare avanti un messaggio di grande consapevolezza. Aron è conscio che quel masso, quella roccia era lì ad aspettarlo, era la sua prova, la sua sfida più grande. È pura solitudine, è puro malessere, è contatto con la morte, è sentirne la vicinanza. Tutte queste cose possono sembrare già ben acquisite da un uomo che pratica sport estremi per passione, che scala i monti e da solo vive le avventure più rischiose, ma in quel momento lui comprende davvero quale sia la differenza tra il rischio e la certezza di ciò che sta per accadere.
Le immagini che accompagnano la sua scelta finale sono nostalgiche, febbrili, quasi deliranti e compongono il mosaico di una pellicola che nasce per mostrare il dinamismo della vita di Aron Ralston, che riesce a scalare interiormente le proprie vette, i propri ostacoli e, nonostante il suo immobilismo forzato, la pellicola non è mai ferma, non è mai inerte.
127 ore presenta continui riferimenti e rimandi ad una simbologia estenuante e rimarcata ma che poi ritrova un senso proprio quando Aron si interroga sui motivi di quella casualità tragica. La roccia, l’acqua, l’attesa, l’alienazione, diventano le chiavi di lettura di un finale che si scompone attraverso un lieto fine, che mostra quanto Aron non voglia infrangere le aspettative di una vita, continuando a mantenere viva la propria passione, non rinunciando agli affetti. La piscina in cui lui nuota rimanda al Canyon, alla pozza d’acqua che lo accoglie dopo 5 giorni di agonia, e anche un po’ al suo delirio della pioggia che inconsciamente lo libera dalla sua prigionia e al tempo stesso lo disseta, portandolo ad una libertà totale che gli fa raggiungere i suoi cari, dandogli una temporanea felicità vaneggiante.
127 ore è una pellicola che va a brandelli con il protagonista, si riempe e si rimargina
127 ore è una pellicola che va a brandelli con il protagonista, si riempe e si rimargina, una pellicola che fa male e che scava come Aron, dentro e fuori di sé. Ci mostra attraverso flashback, sogni e deliri la claustrofobia che il protagonista prova, mentre sogna di poter tornare a casa, mentre apprende che l’acqua è finita, che la notte è troppo gelida e il giorno incapace di sentirlo, ma soprattutto ci mostra la sconfitta di Aron, mentre scrive con un coltellino economico nella roccia il suo nome, la data di nascita e una presunta data di morte.
Aron capisce che un modo di sopravvivere c’è, lui potrà tornare a vivere, ed è proprio sacrificando qualcosa che potrà farlo, amputandosi il braccio e affrontando la risalita verso la civiltà, sperando che qualcuno potrà sentirlo e aiutarlo, dando fiducia all’uomo e non solo alla natura. Una mutilazione necessaria e metafora essenziale di una rinascita che proviene dal dolore più profondo, quello di perdersi.