22 Luglio: la storia vera del film Netflix di Paul Greengrass
L'orrore del reale dietro al cinema. Il massacro che avvenne il 22 luglio in Norvegia nel film di Paul Greengrass: cosa è veramente avvenuto? Quali sono le differenze tra il film e la vicenda?
L’avevamo già visto in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, ora è in uscita su Netflix su scala mondiale, l’ultima fatica del regista Paul Greengrass (autore della trilogia di Bourne, Captain Phililps, etc.), 22 Luglio. Un lavoro basato interamente sulla ricostruzione cronachista ed esatta della strage norvegese di Oslo e Utøya, avvenuta il 22 luglio 2011, massacro nel quale persero la vita 77 persone, tra cui moltissimi ragazzi in ritiro in un campo estivo, una base a fondo politico-socialista. La focalizzazione verte sul rapporto “a distanza”, giuridico prima di tutto, tra l’attentatore terrorista Anders Behring Breivik e uno dei giovani sopravvissuti all’attacco, Viljar Hanssen. Un rapporto, ovviamente, impossibile, scandito dalle tappe della giustizia, in equilibrio costante tra la necessità di essere politici e la riluttanza d’essere retorici. In questo senso, la finalità dell’opera di Greengrass è certamente raggiunta. D’altronde il regista non è nuovo a questo tipo di operazioni.
Questo non è nemmeno il primo film che si occupa della vicenda: proprio quest’anno abbiamo visto U – July 22, diretto dal norvegese Erik Poppe, presentato alla Berlinale e della cui qualità e necessità si è già detto: dove inizia la spettacolarizzazione della tragedia, dove l’etica e l’impeto documentarista? Dove, soprattutto, finisce la finzione e inizia la realtà? Il film di Greengrass è ligio e rispettoso dei fatti, nel tentativo di non distanziarsene eccessivamente, ma anche di impregnarli di significato.
Vediamo, allora, le principali differenze esistenti tra la stesura di 22 Luglio e ciò che effettivamente avvenne quell’indelebile giorno d’estate.
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Tra film e realtà: quali le differenze?
Breivik organizza il suo attacco terroristico puntando immediatamente al quartiere governativo di Oslo, nonché al palazzo del Primo Ministro: la rappresentazione dell’attentato si attiene strettamente alla documentazione ufficiale dei testimoni, giacché Greengrass, in poco più di mezz’ora, ci getta letteralmente nel mezzo dell’azione, in una ricostruzione realista e precisa della strage. Breivik procede, dunque, a camuffarsi da ufficiale di polizia per farsi facilmente scortare nell’isola di Utøya, per poi liberare la sua furia omicida. L’elaborazione del tentativo di fuga da parte di Hanssen e il fratello è molto accurata, mentre a differire è semplicemente la durata dell’attacco, per motivi chiaramente funzionali (quindici minuti contro un’ora e mezza).
Il film si addentra, dunque, durante le rimanenti due ore, nella preparazione e nello svolgimento del processo, ove troviamo l’avvocato difensore Geir Lippestad, i cui quesiti etici saranno presto messi in rilievo.
Per quel che riguarda il processo, il dialogo a cui assistiamo nell’opera di finzione differisce sensibilmente dalla testimonianza di Viljar Hanssen; ad esempio, la sua battuta su come il suo essere cieco da un occhio gli impedisca fortunatamente di vedere l’aggressore pare completamente fittizia.
Come si svolge il processo nel film Netflix
Greengrass si focalizza anche sulla pratica avvocatizia di Lippestad, a cui è riservato il non semplice compito di difendere un’assassino di massa. L’avvocato riceve minacce di morte rivolte a lui e alla sua famiglia, perché accusato di essere un simpatizzante nazista; questo avviene perché, ed è un dato reale, Lippestad è devoto alla sua professione, sostenendo il diritto di chiunque a ricevere una difesa penale, per quanto grave e immorale sia la sua colpa. Chiaramente, chiuso il processo, egli dichiarerà di sentirsi “contento d’aver portato a termine il proprio compito”, mentre Breivik decide infine di rifiutare la nozione d’infermità mentale. Egli è, infatti, radicalmente e consciamente intenzionato a “rivoluzionare” l’assetto socio-politico della sua nazione; anzi, è certo che quanto da lui perpetuato sia “soltanto l’inizio”, che arriverà, cioè, qualcuno a completare il suo lavoro. Breivik, nel film, viene condannato a un isolamento di prigionia dai contorni temporali imprecisati, “finché non verrà giudicato idoneo e non pericoloso per l’incolumità collettiva”, mentre nella realtà la sentenza specifica i 21 anni di reclusione. Non è una differenza sostanziale (in pratica si tratta della medesima condanna), bensì funzionale all’appesantimento apparente della pena. Ventun’anni sono infatti la massima pena permessa dal codice norvegese, estendibili in un secondo momento (come probabilmente avverrà a Breivik nel carcere di Skien).
Sinteticamente, le operazioni di traslazione fatte da Greengrass valgono in virtù di un pubblico internazionale, poco avvezzo ai cavilli legali della nazione, ma non consistono di fattuali distanze tra messa in scena e realtà. Quello che potrebbe apparire “desueto” a un pubblico culturalmente distante (si pensa soprattutto a quello americano) è il concetto di reinserimento del criminale all’interno della società, perciò la sua sistemazione (per quanto isolata) non deve privarlo di una vita degna, “normale”: da qui la fattezza confortevole della cella, nel film assolutamente aderente a quanto è vero.
Il finale di 22 luglio e il suo significato
Non essendo una mera e fine a se stessa rappresentazione storiografica degli eventi, il film di Greengrass si propone di condurre i protagonisti verso una loro metabolizzazione della vicenda, nell’arduo percorso che vuole dare un senso a una strage assolutamente illogica, tragica, moralmente inaccettabile. La testimonianza che Viljar darà dinnanzi a colui che ha provato a privarlo della vita e degli affetti è un atto di coraggio e di speranza, un sì alla vita, alla comunione tra esseri umani.
L’inquadratura finale che lo vede contemplare una distesa ghiacciata, con l’orizzonte dinnanzi a sé, è metaforicamente un invito a intraprendere un viaggio che poteva fermarsi e non l’ha fatto. Una riflessione su come si possa andare avanti, nonostante la traumatica esperienza di fatto l’abbia fisicamente e psicologicamente devastato. Ed è qui che giace la differenza tra lo spazio ampio e profondo che circonda Viljar, uno spazio anzitutto mentale di libertà, e quello punitivo e chiuso di Breivik (che infatti ci viene mostrato nell’atto di accedere alla sua cella), la cui esasperata fede in una politica sovversiva lo condanna, prima di tutto, a una limitazione esistenziale, nonché alla solitudine.
Dopo il 22 luglio..
La convinzione e la mancanza di rimorso dimostrate in sede giudiziaria da Breivik fanno pensare che, allo scoccare del 2033, la pena dei 21 anni canonici verrà duplicata. Non vi sono, quindi, estremi che facciano pensare a una sua riabilitazione e, di conseguenza, a un avvenuto pentimento.
Viljar Hannsenn, oggi studente ventenne all’Università di Tromsø, non è stato direttamente coinvolto nel progetto, ma si è dimostrato ricettivo nell’accogliere il messaggio politico che giace alla base di un’opera del genere: quello, cioè, di sensibilizzare le comunità mondiali a una maggiore comprensione dei pericoli della militanza all’interno di gruppi di estrema-destra (una situazione, di fatto, largamente presente in Norvegia).
Per quel che riguarda Lara Rashid, sedicenne ai tempi dell’attentato, le sue dichiarazioni sul film supportano l’intento, ma tentano una critica alla mancanza di sufficiente riferimento all’odio perpetuato da Breivik nei confronti del genere femminile.