8½: il significato e la spiegazione del finale del film di Federico Fellini
8½, capolavoro di Fellini, prende avvio da una crisi ispirativa per ribaltare, nel finale, il concetto stesso di ispirazione artistica.
Per Guido Anselmi, regista quarantatreenne (la stessa età di Federico Fellini al momento delle riprese), la vita ha subito una battuta d’arresto. Bloccato da un sentimento d’immobilità pervasiva che riguarda tanto la dimensione privata – il rapporto con la moglie Luisa e con l’amante Carla – quanto quella professionale, il personaggio interpretato da Marcello Mastroianni non riesce a ritrovare la spinta creativa. 8½, tra i film più acclamati del genio riminese, si apre con un incubo: Anselmi è intrappolato in un’auto in coda tra tante altre automobili, riesce a liberarsi librandosi in volo, ma viene ‘riacciuffato’ mentre sorvola un litorale e, per sfuggire alla cattura, è costretto, da un’altezza vertiginosa, a schiantarsi in acqua.
Il sentimento che intrappola il protagonista di 8½ è dichiarato dai simboli del sogno: l’impossibilità di uscire da un abitacolo di una macchina (trasposizione metaforica dell’alienazione in una società divenuta automatizzata e prevedibile), l’oppressione di fronte all’assenza di vie di fuga percorribili su un piano di realtà, il volo come tentativo fantasmatico di superare ‘l’angoscia claustrofobica’, la cattura da parte di due uomini sulla spiaggia che riescono, con un laccio, ad agguantargli una caviglia, l’ultimo, estremo, gesto di liberazione attraverso il tuffo fatale che lo ricongiunge con l’acqua, figura uterina, dimensione vischiosa della profondità inconscia e della regressione, del ritorno alla vita prima della vita, quella nel grembo materno.
8½: un regista in crisi esistenziale cerca la chiave di senso che continua a sfuggirgli
Le ragioni dello smarrimento esistenziale ed artistico del Guido Anselmi di 8½ non risiedono, però, nell’impasse che sperimenta sul set. È vero: ha accettato di girare un film, il produttore si aspetta da lui qualcosa di grandioso, ma lui non sa che cosa vuole raccontare, quale rappresentazione vuole imbastire. È tallonato da un intellettuale pedante e dalle maestranze che nutrono nei suoi confronti ammirazione e aspettative. Tuttavia l’assottigliarsi e l’inaridirsi dell’ispirazione è più sintomo che causa dell’angoscia intensa che sperimenta. Il nodo da sciogliere sembra essere la scelta, la sua radicale incapacità di scegliere: come il personaggio che sta cercando, con fatica e vaghezza, di portare sulla scena, anche Anselmi non riesce a circoscrivere un obiettivo di vita, a consacrarsi a un unico compito e a un unico amore. La vita gli appare foriera di possibilità multiple e stordenti, e lui non sa quale sentiero percorrere. Ha una moglie, Luisa, una donna elegante e stimata che ai suoi occhi rappresenta il porto sicuro al quale non sa rinunciare; ha pure un’amante, Carla, una signora appariscente e giuliva che lo diverte e per cui nutre sentimenti distratti; una terza donna, Claudia, bellissima, gli appare come una Musa sospesa tra quotidiano e mitologia.
Lei lo porta a fare un giro in macchina, durante viaggio lui le confida, attraverso la mediazione di un personaggio fittizio da tradurre ipoteticamente in scena, i suoi tormenti più resistenti. La donna lo inchioda alle sue responsabilità, alla consapevolezza che è dalla sua incapacità di amare nient’altro se non le sue fantasie sconclusionate che deriva l’incapacità di vivere, la vuotezza che ha preso ad abitarlo. La frammentazione del femminile – qui sostanzialmente tripartito – rimanda all’inconciliabilità di amore affettivo ed amore erotico, ad un inconscio senso di colpa per l’infantile desiderio incestuoso rivolto alla madre e a tutte le incarnazioni della madre, poi scisse tra viziose e virtuose. Claudia, in veste di ‘beatrice’, non è salvifica come Guido forse sperava, ma resta sempre sospesa, oscillante come un impiccato tra pulsioni remote e recenti, slanci spirituali e spinte sessuali più aggressive.
Indagine esistenziale e indagine meta-filmica si dipanano in parallelo
Dalle richieste di aiuto, ai collaboratori e a un uomo di Chiesa, Guido non ottiene consolazione, ma solo la conferma dell’irrealizzabilità della sua aspirazione titanica: la felicità non è il destino terreno dell’uomo, ma solo un’ipotesi oltremondana. Le memorie d’infanzia tornano a fargli visita, stralci di vita onirica si confondono all’esperienza di realtà: Anselmi si ritrova bambino, in una Romagna matriarcale e affettuosa, tra le stanze di casa sua, un collegio cattolico, la riviera frequentata da una gigantessa nota come Saraghina, una donna corpulenta e provocante che incendia di fantasie ‘proibite’ i desideri infantili.
La caleidoscopica inquietudine di Anselmi si risolve, infine, nella rinuncia al film, rinuncia a cui approda a sorpresa dopo una rocambolesca conferenza stampa da cui fugge nascondendosi sotto un tavolo e impugnando una pistola. Con la rinuncia all’oggetto – il film da girare, strumento di senso –, accade il miracolo, arriva, del tutto a sorpresa, la redenzione e la rinascita. L’uomo che ha affannosamente cercato di mettere ordine tra memorie, fantasmi, ossessioni, desideri e tormenti avverte – è un avvertire, non un comprendere razionalmente – che al deporre l’illusione che possa esserci ordine si raggiunge la pace, un intimo sentimento di libertà e di gioia. Soltanto nell’accettare il disordine come parte integrata e non antagonistica del proprio sé si può ritrovare la voglia di vivere, si può tornare ad essere il fanciullo giocoso e sognante che si è stati.
Oltre alla ricerca esistenzialista, 8½ svolge, com’è evidente, anche un’investigazione meta-linguistica e meta-filmica, studia il gesto creativo, si chiede che cosa sia e quale orizzonte di significato dispieghi. La salvezza dalla confusione, prima cercata in una mano esterna, un’entità superiore in grado di riscattare e redimere, avviene quando il protagonista intuisce che è impossibile venire a capo della confusione, ma che proprio quella confusione da modalità dello sguardo può diventare obiettivo dello sguardo, da soggetto tramutarsi in oggetto. Così la confusione che Anselmi nutriva sul suo film diventa il film stesso: il regista finalmente comprende che è inutile cercare una storia, perché la storia è giù lì davanti a lui, la storia è il suo sguardo. L’anarchia del suo animo, i brandelli di ricordi, sogni e incontri che affollano la sua coscienza sono la storia: il regista non può che renderne testimonianza, cucendo e ricucendo quei pezzi di vita vissuta o sognata in una tessitura continua e senza strappi, senza inciampi in vuoti di senso.