A Classic Horror Story: la spiegazione del film Netflix
Cerchiamo di analizzare e spiegare A Classic Horror Story. ALLERTA SPOILER!
Roberto De Feo colpisce ancora! Dopo aver sorpreso la critica con The Nest – Il Nido adesso il regista italiano si cimenta in un nuovo horror targato Netflix, affiancato in cabina di regia da Paolo Strippoli. Una pellicola con pochi difetti e molti pregi, contaminata da citazioni al cinema di genere degli anni ’70 e ’80 e con una furba strizzatina d’occhio a saghe americane di successo come Final Destination e The Conjuring.
Tuttavia il titolo parla chiaro: A Classic Horror Story è una storia dell’orrore dalla struttura classicheggiante in cui tutto è studiato con dovizia di particolari al fine di regalare al pubblico un racconto avvincente e macabro in cui i protagonisti si comportano esattamente come dovrebbero, seguendo un immaginario copione e arrivando in ultima analisi a sfondare la proverbiale quarta parete, in una diatriba in cui i pensieri diffusi sul cinema italiano attuale contaminano e stravolgono l’operosità stessa dell’industria cinematografica nostrana.
Complessivamente potremmo definire l’opera di De Feo e Strippoli come una matrioska in cui si assemblano alla perfezione regole ferree, attori di elevato talento, una spolverata massiccia di folclore e un’abbondante dose di maestria nel comparto tecnico, saggiamente dosata con una soundtrack quasi fiabesca e perciò ancor più adeguata a rimarcare tutta l’ironia che la pellicola conserva in seno.
L’obiettivo principale di A Classic Horror Story sembra essere quello di smembrarsi da solo, in un’autopsia fisica e psicologica che incunea lo spettatore prima nella mente malata di un regista esordiente (Fabrizio, interpretato da Francesco Russo), poi nella complessità lacerante dell’industria cinematografica italiana e nelle aspettative del pubblico tricolore, così incantate dalla perfezione (anche solo apparente) del cinema d’oltreoceano da ignorare l’arte dei propri conterranei.
Un film che cerca di far riflettere e allo stesso tempo tende a confondere, incastrandoci in una gabbia immaginaria chiusa a doppia mandata da due finali, che altro scopo non hanno se non quello di rimarcare il malessere di chi tenta di fare cinema di qualità in Italia, sgomitando a colpi di “originalità”.
A Classic Horror Story: la trama del film Netflix e la leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso
Originalità, già, una parola da mettere tra virgolette. Non perché i registi non siano in grado di maneggiarla, piuttosto perché, come dicevamo poc’anzi, in A Classic Horror Story si riversano le copie, i riassunti e i ragionamenti ereditati da anni e anni di cinema e letteratura di genere. Basti pensare alla trama, azzeccata nella sua essenzialità: un viaggio in camper che funge da collante tra cinque sconosciuti e che porterà i malcapitati all’interno di un bosco isolato, al cospetto di una spettrale casa e alle prese con un’antica leggenda sulla ‘ndrangheta.
Il medico Riccardo (Peppino Mazzotta), la coppietta straniera composta da Mark e Sofia (interpretati rispettivamente da Will Merrick e Yuliia Sobol), la giovane Elisa (Matilda Lutz) – costretta ad abortire pur di tenersi stretto il posto di lavoro e in palese disagio per tale scelta – sono tutti in viaggio verso il sud dell’Italia, in Calabria, a bordo del camper di Fabrizio (Francesco Russo), un giovane all’apparenza impacciato che sogna di fare il regista. Dopo una serie di polemiche in merito alla guida un po’ troppo lenta di Fabrizio, il giovane Mark decide di prendere il controllo del veicolo nonostante sia stanco e leggermente ubriaco. Quando, per evitare la carcassa di un animale, sono costretti a sterzare, finiscono contro un albero, con Mark infortunato a un ginocchio e il camper in panne. Ma la cosa più strana è che i cinque si ritrovano lontanissimi dalla strada principale, in un bosco all’apparenza deserto e chiaramente con i telefoni fuori gioco.
Solo una casa nelle vicinanze, all’interno della quale vi sono affreschi che rimandano alla vecchia leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Fabrizio racconta ai suoi compagni di viaggio quella storia a lui molto nota dei tre cavalieri spagnoli che, dopo essere stati condannati per omicidio, una volta nuovamente in libertà fondarono le note organizzazioni criminali italiane: Osso fonderà Cosa Nostra in Sicilia, Carcagnosso la ‘ndrangheta in Calabria e Mastrosso la Camorra a Napoli. Nel film però queste figure leggendarie acquistano un volto e un’importanza maggiore nel momento in cui Fabrizio racconta ai novelli amici di come salvarono il villaggio da una terribile carestia, richiedendo però in cambio lingue, orecchi e occhi, che infatti contraddistinguono anche le caratteristiche fisiche dei tre mostri all’interno di A Classic Horror Story.
Pur di non perire, gli abitanti acconsentirono a compiere i sacrifici, venendo tuttavia maledetti per queste azioni e trasformati in un gregge senza cervello.
A scoperchiare il lato splatter e horror della vicenda, immediatamente dopo l’incidente, sono le urla della piccola Chiara (Alida Baldari Calabria), provenienti dalla misteriosa casa alla quale il camper si è inaspettatamente avvicinato. La più coraggiosa, Sofia, non esita un momento ad avventurarsi tra quelle mura per cercare di capire cosa accade e intervenire, seguita prontamente da Elisa. Ciò che trovano è una bambina a cui è stata tagliata la lingua (depositata all’interno di un vasetto), avvolta in una fitta gabbia di rami. Ma non faranno in tempo a liberarla subito e andare via, poiché Fabrizio e Riccardo saranno costretti a raggiungerli e a sigillare l’ingresso della soffitta nella quale si sono rifugiati, mentre Osso, Mastrosso e Carcagnosso portano dentro casa Mark, ponendolo su un tavolo ligneo al quale gli ancorano polsi e caviglie per mezzo di robuste cinghie, procedendo poi a spezzargli i piedi e, in conclusione, a penetrargli gli occhi. Tutto sotto lo sguardo inerme della sua ragazza, che assiste alla cruenta morte del fidanzato senza poter proferire parola.
Cosa accade alla fine di A Classic Horror Story?
Nonostante le liti, le diffidenze e le scoperte a metà, i superstiti cercheranno di confortarsi a vicenda con qualche racconto e una birra trovata per caso. Quando si svegliano, però, ciò che si svela agli occhi di Elisa (e quindi anche ai nostri) è un nuovo sacrificio: l’intero villaggio assiste quasi lobotomizzato al sacrificio di Riccardo e Sofia, sull’altare accanto alla bambina. Gli viene sottratto un occhio per uno così da completare una scomposta opera raffigurante un volto.
Elisa vorrebbe fare qualcosa, ma Fabrizio la trascina dentro casa. È in quel frangente che la ragazza capisce l’imbroglio nel quale è ancora invischiata: Fabrizio non è affatto un bravo ragazzo che gira video di viaggio, bensì un regista di horror cruenti, che ha architettato tutto in modo da far trovare i suoi compagni di viaggio esattamente dove gli occorreva che fossero, ovvero tra le mani degli assassini, con i quali comunica per mezzo di un finto apparecchio acustico.
Fabrizio li ha drogati (la sera prima è stato l’unico a non bere) e anche quella bambina apparentemente indifesa è sua complice: Chiara finge di non avere la lingua e di essere stata vittima degli abitanti del villaggio, in realtà ha solo giocato la sua parte al fine di condurre il gruppo alla morte.
E cosa c’entra la mafia con A Classic Horror Story? Praticamente tutto, dal momento che i film realizzati da Fabrizio vengono commissionati direttamente dalla ‘ndrangheta, interessata a produrre pellicole realmente raccapriccianti, prodotti che il pubblico ama e divora voracemente e che però solo la realtà può effettivamente regalare. Cosa c’è di meglio, allora, se non filmare delle morti reali? Insomma, avrete capito giunti verso la fine della pellicola che Fabrizio è un narratore autodiegetico e quasi onnisciente; tutto ciò che vediamo è il compimento di un oscuro copione già scritto, stravolto però dall’intuito di Elisa, alla quale va il merito di riscrivere la sua storia e, automaticamente, anche quella del film in cui si ritrova a sua insaputa.
Malgrado venga catturata e immobilizzata su una sedia con dei chiodi che le traforano le mani, tenendole fisse sui braccioli, la ragazza riesce a liberarsi, vagando tra gli stand di quel set a cielo aperto in cui si rintracciano telecamere, manichini, maschere e, non per ultimo, il camper in cui Fabrizio e la sorella Chiara discutono sul da farsi. Appostandosi all’ingresso con un fucile carico fa fuori con un solo colpo d’arma da fuoco Chiara e poi Fabrizio, che tenta invano di contrattare per la sua libertà.
Non teme di mostrarsi in volto, anzi filma tutto e ci tiene a chiarire che quello è il finale del film. La scena finale mostra il personaggio interpretato da Matilda Lutz allontanarsi da quel luogo degli orrori e riuscire a oltrepassarne i confini grazie al fortuito aiuto di un bambino che, avendo superato il recinto per volontà di fanciullesca esplorazione, si lascia intimorire dall’arma di Elisa, fuggendo e indicandole quindi la via di fuga.
La ragazza si ritrova così in una normalissima spiaggia, con le ferite che le attanagliano il corpo e gli abiti imbrattati di sangue. Incurante dello sguardo dei presenti, tutti intenti a filmarla con i cellulari, si incammina verso il mare e lì si immerge in una danza liberatoria e romantica in cui si abbraccia il ventre – facendo dunque capire che alla fine ha deciso di seguire il suo cuore e non abortire – mentre rivoli di sangue fluttuano tra le acque.
A Classic Horror Story: spiegazione e analisi del film Netflix
A parte l’esame di ciò che si vede nella pellicola, è interessante notare come gli autori riescano a intessere dei collegamenti tra la narrazione orrorifica e legata ai classici del genere e il sistema malavitoso italiano, al quale attingono tirando in ballo non solo le leggende sulla nascita delle organizzazioni mafiose ma anche tutto quel background di convinzioni e opinioni diffuse non solo nel riferimento a chi proviene dal sud del Bel Paese ma anche all’industria cinematografica. A Classic Horror Story è, per certi versi, un puzzle di modi di dire e credenze diffuse e al contempo è una critica alla società in cui viviamo, alla paura del diverso e all’invidia smisurata verso gli altri.
“Sei del sud quindi sei mafioso… alla fine l’ho dovuto far ammazzare”: la barzelletta raccontata da Fabrizio è il riassunto di un pregiudizio che però potrebbe anche essere fondato. In questo modo De Feo e Strippoli giocano su convinzioni assodate, trascinandoci nella loro personale palestra autoironica in cui tutti hanno una rabbia viscerale e una ragione valida per uccidere, fingere o, semplicemente, girare un film.
Gli autori non fanno a meno di ricorrere a canzoni soft e completamente distanti dal contesto di riferimento (Il cielo in una stanza di Gino Paoli ed Era una casa molto carina) per farci sentire un po’ più a nostro agio e al contempo anche un po’ fuori posto, così come non si negano i collegamenti con leggende, racconti e immagini legate al folclore del sud Italia. Basti pensare, per esempio, all’immagine della santa con le stimmate che Elisa fissa all’inizio della pellicola e che poi lei stessa sembra incarnare nel finale, quando solleva con sofferenza le mani al cielo, liberandosi dai chiodi e compiendo la sua vendetta.
Anche la tavolata imbandita con la protagonista a capotavola e il bambino dal volto deturpato che intona un canto in dialetto calabrese rende l’atmosfera a suo modo originale e ci dirotta quasi inconsapevolmente verso pellicole come Midsommar.
A destabilizzare ulteriormente la visione è il doppio finale di A Classic Horror Story. Nei titoli di coda, infatti, accediamo a una piattaforma streaming parallela, visionando prima la chat di alcuni utenti che commentano il film, criticando o elogiando l’industria cinematografica e i film di genere nostrani.
Una mossa senza dubbio piacevole e inaspettata, ma che di fatto risulta essere ridondante, appesantendo l’ironia, la critica e la (tutto sommato) complessiva bellezza di un’opera che è già un successo di critica e pubblico.