Quanto Alberto Sordi ha influenzato Carlo Verdone
Nel 100° anniversario della nascita di Alberto Sordi è bene interrogarsi su quanto l'artista romano abbia influenzato Carlo Verdone, analizzando affinità e differenze tra quest'ultimo e il suo presunto ‘padre’ cinematografico.
Quando nel 1981 Carlo Verdone, dopo il folgorante esordio con Un sacco bello, mostra per la prima volta la sua opera seconda, Bianco, rosso e Verdone, a Sergio Leone, suo produttore, questo aggrotta la fronte: non è affatto convinto che un personaggio come quello di Furio, un nevrotico ossessivo inconsapevole dell’energia negativa e opprimente che sprigiona, abbia la carte in regola per piacere al pubblico. Per sciogliere ogni dubbio decide, allora, di organizzare una proiezione casalinga del film a cui invita, oltre al giovane regista, anche Monica Vitti, il calciatore Paulo Roberto Falcão e Alberto Sordi. Fu proprio l’entusiasmo dei tre spettatori-cavia e, in particolare, di Sordi a convincere Leone a superare le sue riserve e a credere nel film.
È questo soltanto uno dei tanti aneddoti che legano la figura di Verdone a quella di Sordi, le cui vite cominciarono presto ad intrecciarsi. Sordi frequentava, infatti, la casa d’infanzia di Verdone in quanto Mario Verdone, padre del futuro regista, era un importante studioso di storia del cinema. Nel libro autobiografico La casa sopra i portici, Verdone racconta il terrore con cui riceveva da bambino le visite dell’attore, solito a rivolgergli battute spiazzanti sul suo modo di vestire e di comportarsi. Allora non poteva ancora sapere che, un paio di decenni dopo, avrebbe stretto con l’amico di papà un sodalizio umano e, in parte, anche professionale.
Scopri tutti i personaggi di Carlo Verdone: uno spaccato di vita e ilarità
Già all’indomani della distribuzione di Bianco, rosso e Verdone, benedetto da Sordi, i due interpretarono padre (donnaiolo) e figlio (imbranato) nel film In viaggio con papà, diretto dallo stesso Albertone. Successivamente si sarebbero ritrovati di nuovo insieme sul set di Troppo forte (1986) di Carlo Verdone, anche se quell’esperienza di lavoro rivelò a entrambi soprattutto le reciproche incompatibilità. Sordi non solo era stato imposto dal produttore a Verdone, che al suo posto avrebbe voluto Leopoldo Trieste, ma in quegli anni stava già sprofondando tra le ombre e le malinconie che avrebbero caratterizzato gli ultimi anni della sua vita, anni offuscati dalla paura di non riuscire più a far ridere. Il risultato fu un’interpretazione caricaturale, esaltata nel suo istrionismo. Verdone avrebbe voluto per il personaggio di Sordi, un avvocato, una coloritura diversa: lui lo aveva immaginato come un uomo pavido, un vinto, un ‘don Abbondio’. L’irruenza interpretativa di Sordi dirottò il personaggio verso altri approdi.
Alberto Sordi e Carlo Verdone: l’affetto al di là delle differenze professionali
Vi è, infatti, a ben guardare, un equivoco di fondo che si trascina sia su Sordi sia su Verdone in quanto presunto erede di Sordi: come sosteneva Ettore Scola, Sordi non diede mai corpo, voce e anima a prototipi di un’italica mediocrità, ma seppe ‘slatentizzare’ la pazzia dormiente degli Italiani, le pulsioni errabonde, le stravaganze e i precipizi etici che, da peccati del singolo, trasformò in tratti antropologici, in timbriche di temperamento condivise. I personaggi scritti e interpretati da Carlo Verdone si collocano, invece, sul versante opposto: borghesi o borgatari che siano, abitano una dimensione anti-eroica, possiedono una mitezza che neppure le loro numerose nevrosi e malinconie riescono a increspare, a rovesciare in rabbia distruttiva. Sperimentano un disadattamento privo di tragicità, vivificato da un candore ricco di fantasie e di risorse interiori. L’amarezza, quel sentimento agro-dolce che comunicano, non è così radicale e ‘amorale’ come quella che alberga nelle vite dei personaggi sordiani. Manca alle tante maschere verdoniane il cinismo che appartiene a quelle indossate da Sordi nella sua esplorazione irripetibile dei vizi e dei caratteri di Italiani apparentemente medi e bonari, ma in verità repressi nella furia che li scava.
Alberto Sordi nell’affettuoso ricordo di Carlo Verdone
Delle possibili sovrapposizioni tra l’operato (registico, autoriale e attoriale) di Verdoni e le interpretazioni prodigiose di Sordi, in verità, sono maggiori gli scarti che le aderenze. Il loro è stato un rapporto soprattutto umano. Dei suoi anni professionalmente più stimolanti, ma anche difficilissimi dal punto di vista famigliare a causa della malattia neurologica che consumò e uccise sua madre, Verdone ama ricordare la presenza costante di Alberto Sordi che, pur essendo tanto esuberante in scena quanto pudico nella vita, non mancò nei momenti più duri di abbandonare il riserbo e di mostrare il suo affetto per lui.
Tra i ricordi più teneri che li legano, ce n’è uno che più di tutti Verdone conserva come prezioso: sua madre Rossana, nel 1984, prima di morire, rattrappita in un corpo di nemmeno quaranta chili, in un raro momento di lucidità insistette con il figlio affinché chiamasse Sordi perché avrebbe desiderato salutarlo prima di morire. Allora, Sordi, nonostante le condizioni precarie della donna, non esitò un momento. L’amico della famiglia Verdone si era fatto trovare di nuovo pronto, nella delicatezza e nella sensibilità estreme che rivelava solo alle persone più care e solo fuori dal set.
I percorsi professionali di questi due giganti del nostro cinema si sono, dunque, intersecati e sovrapposti per piccoli segmenti ma, in fondo, hanno sempre seguito ispirazioni e inclinazioni differenti, mentre i destini privati hanno continuato ad incrociarsi a lungo. Se qualcosa accomuna la loro parabola artistica è, forse, soltanto il progressivo scivolamento, dopo gli anni dello stato di grazia, del successo più pieno e della sintonia perfetta con lo spirito dei tempi, verso automatismi stanchi e formulazioni grossolane dell’intuizione comica. I personaggi di Verdone, non figli ma lontani parenti di quelli di Sordi, hanno, tuttavia, conosciuto anch’essi, come quelli dell’Albertone maturo, la china e la stanchezza, la rinuncia a quel disincanto lirico persino nella brutalità che li ha resi amabili e indimenticabili al pubblico. Non la mancanza di stile e talento, bensì la sacrosanta “malinconia personale”, accumuna questi due artisti, che nell’immaginario di ogni italiano rimangono comunque il volto inossidabile e variegato di un’importante fetta della comicità italiana.