Alfred Hitchcock: le 10 parole chiave del Maestro del brivido
Il 13 agosto 1899 nasceva una delle personalità più importanti della storia del cinema: Sir Alfred Hitchcock. Una carriera sterminata e fitta di capi d'opera, attraversata da alcune imprescindibili parole d'ordine che hanno contribuito a costruirne e alimentarne il mito.
Le definizioni, si sa, servono per identificare un concetto, semplificarlo e chiarirlo. Ma, molto spesso, porgono il fianco ad una prevedibile banalizzazione, ad un impoverimento che non rende giustizia. Prendiamo Alfred Hitchcock, ad esempio: con una carriera formata da oltre 50 film, la maggior parte dei quali ritenuti – a ragion veduta – dei capolavori della Settima Arte, ridurlo alla semplice etichetta di Maestro del brivido sembra davvero (ehm) un delitto.
Il cinema di Sir Alfred – che incredibilmente in vita non ha mai vinto un Oscar né un festival di rilievo, segno evidente di quanto la veridicità dei premi sia sovente relativa e discutibile – è un caleidoscopio di sollecitazioni e spunti, capace di affrontare la filosofia, la psicologia, le innovazioni tecniche e le spinte socio-culturali in atto dagli inizi degli anni ’20 alle fine degli anni ’70. Se ripercorrere la sua intera filmografia è impresa pressoché impossibile, possiamo tuttavia provare a riassumere le parole chiave della sua infinita produzione, i fili rossi che lo hanno reso uno dei registi più importanti della storia del cinema.
Il dizionario hitchcockiano: 10 parole chiave per 10 capolavori
Hitchcock e il cinema muto: Il pensionante (1927)
Sembra incredibile, ma Alfred Hitchcock a 23 anni è già dietro la macchina da presa, alle prese con le sue prime regie. Il suo primo vero film è forse Il pensionante: nella storia di una ragazza trovata morta sulle sponde del Tamigi e del principale sospettato che alloggia in una pensione gestita da una anziana coppia di coniugi prendono infatti forma compiuta le caratteristiche di tutto il suo stile cinematografico.
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Il periodo muto di Hitchcock (nove film realizzati fra il 1925 e il 1929) è fortemente influenzato dall’espressionismo tedesco – conseguenza della sua esperienza come aiuto scenografo al fianco di Friedrich Murnau e Fritz Lang – e si ispira alla mitologia di Jack lo Squartatore, puntando il dito contro la meschinità dell’ambiente soffocante e piccolo-borghese, che perseguita come in un incubo un innocente ritenuto colpevole.
Hitchcock e il remake: L’uomo che sapeva troppo (1934)
La carriera di Hitchcock è divisa in due fasi: quella dei film girati in Gran Bretagna, che gli permette di prendere le misure con i meccanismi dell’industria, e quella delle opere realizzate in America, che coincide con la sua consacrazione. Nonostante l’autore inglese non rinneghi in alcun modo i propri esordi, nel 1956 realizza il remake di un suo stesso film: L’uomo che sapeva troppo.
Il motivo di questa scelta lo spiega lui stesso, nella famosa intervista che François Truffaut gli fece nel 1966 (racchiusa nel volume Il cinema secondo Hitchcock): “La prima versione è stata realizzata da un dilettante di talento, la seconda da un professionista”. Nonostante questa presa di posizione, L’uomo che sapeva troppo del 1934 è comunque uno dei film più importanti di Hitch: è la sua prima spy-story, è il primo a mescolare con maestria humour e suspense e per la prima volta viene affidato un ruolo decisivo alla figura femminile.
Hitchcock e la suspense: Il sospetto (1941)
Hitchcock non è mai stato un regista di horror per svariati motivi, il più importante dei quali è probabilmente il fatto che nei suoi lavori non trionfa la sorpresa quanto semmai la suspense. La suspense è un elemento fondamentale, trattiene l’attenzione e crea ansia, soprattutto nei confronti di uno spettatore particolarmente consapevole come quello hitchcockiano.
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In Il sospetto, grazie alla soggettiva, noi siamo la moglie del protagonista, e come lei oscilliamo fra il desiderio di credere all’uomo e le continue contraddizioni che alimentano l’apprensione e l’incertezza. Ma la suspense può essere dettata anche da un singolo elemento che siamo costretti a guardare: come il famoso bicchiere di latte che Cary Grant porta alla moglie ammalata, illuminato furbescamente da Hitchcock con una lampadina (perché è lì e solo lì che dobbiamo concentrare la nostra attenzione). Quel latte è avvelenato? O è una innocua premura che il consorte prende nei confronti della sua partner?
Hitchcock e il long take: Nodo alla gola (1948)
Doppia sfida tecnica: Nodo alla gola è il primo film a colori girato da Hitchcock, e per tutta la sua durata è composto da un unico (apparente) piano sequenza. Traendo spunto da un vero fatto di cronaca, Sir Alfred racconta la storia di una giovane coppia omosessuale (altro clamoroso elemento di rottura) che nel corso di un litigio uccide strangolandolo un amico invitato a casa per cena.
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Se oggi il long take, grazie alle moderne tecniche di ripresa, è ormai divenuto normale amministrazione, nel 1948 era un vero e proprio virtuosismo, quasi ai limiti della follia creativa: occorreva infatti riprendere dieci minuti alla volta (tempo massimo di proiezione di un rullo, corrispondente a 300 metri di pellicola), fingendo poi con un abile gioco di montaggio che si trattasse di una unica lunghissima ripresa priva di tagli. A distanza di anni Hitchcock quasi si vergognerà di questo esperimento, capace tuttavia di lasciare letteralmente a bocca aperta generazioni di spettatori, fino ai giorni nostri.
Hitchcock e il voyeurismo: La finestra sul cortile (1954)
Guardare, senza essere visti. Violare l’intimità e scrutare le vite degli altri. Uno dei leit motiv principali di Alfred Hitchcock trova la sua piena apoteosi in La finestra sul cortile, forse il suo film più iconico. Non siamo un pubblico passivo, ma al contempo non possiamo intervenire: siamo dei voyeur, volenti o nolenti, e ci muoviamo come un personaggio nascosto all’interno della messinscena abilmente architettata. L’edificio scrutato con un teleobiettivo dal fotografo protagonista è un palcoscenico teatrale, brulicante umanità indaffarata nelle semplici sfaccettature della vita quotidiana.
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Noi guardiamo James Stewart, che a sua volta guarda e osserva il microcosmo che gli si para davanti, convincendosi di aver assistito ad un omicidio; un film nel film, che placidamente ci porta dove vuole aprendosi a decine di interpretazioni e sottotesti. In sintesi? Un capolavoro.
Hitchcock e il 3d: Il delitto perfetto (1954)
Periodicamente Hollywood ci riprova e, puntualmente, fallisce: la tridimensionalità è uno dei chiodi fissi della Fabbrica dei sogni, annunciato ogni tot anni in pompa magna e poi successivamente rimesso in archivio causa disuso. Mentre noi ci siamo arrabattati per anni disquisendo sulla perfezione o meno dei 3d presenti in Avatar o Gravity, nel 1954 Hitchcock gira quello che è probabilmente uno dei più efficaci risultati del cinema a tre dimensioni: Il delitto perfetto.
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La stereoscopia non era stata tuttavia una sua scelta: bisognava contrastare la nascente popolarità della tv. Hitch lo usò con raffinatezza, facendo anche costruire sul set una buca che portasse la cinepresa a livello del pavimento. Il resto sono suspense, sospensione, imprevisto, che il 3d rende più tangibili e sadici (considerato anche che la vicenda si svolge interamente in un salotto).
Hitchcock e i cameo: Caccia al ladro (1955)
In principio fu una necessità, poi una superstizione e infine una vera e propria gag: in quasi tutti i film di Alfred Hitchcock c’è un suo cameo, ovvero una sua breve apparizione straordinaria non funzionale alla storia che viene raccontata. Hitchcock che passeggia, che legge un giornale, che attraversa una strada, che esce da una camera d’albergo.
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Noi peschiamo dal mucchio (appare in ben 37 film!) e scegliamo Caccia al ladro, in cui il Nostro è seduto in fondo a un autobus di fianco a Cary Grant, uno dei suoi attori feticcio. Una trovata semplicissima e molto auto-ironica, che ha scatenato schiere di spettatori curiosi di trovare il regista nascosto in chissà quale inquadratura. E infatti col passare degli anni il buon Alfred ridurrà le comparsate, o le rilegherà ai primi 5 minuti di pellicola, per – come disse lui stesso – “permette alla gente di vedere il film con tranquillità”.
Hitchcock e il doppelgänger: La donna che visse due volte (1958)
Dicesi doppelgänger un duplicato di se stessi, un doppio o sosia di una persona. Il termine viene associato perlopiù alla psicanalisi, e può riferirsi ad un gemello maligno, alla bilocazione (essere in più luoghi contemporaneamente), al culto narcisistico della personalità (specchiarsi e amare il proprio doppio) e allo sdoppiamento temporale (incontrare se stessi nel futuro).
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Il cinema ama le doppie identità (basti pensare a Kubrick o al primo Cronenberg), e anche Hitchcock le ama: in La donna che visse due volte il personaggio principale si uccide gettandosi da un campanile ma riappare; in Intrigo internazionale il protagonista subisce uno scambio di persona e finisce in un incubo inestricabile (tanto più che il suo alter ego non esiste); in Psyco Norman Bates scinde la sua personalità dandone una parte alla sua defunta madre. A proposito di doppioni: avete mai notato come qualsiasi remake di un’opera di Hitchcock sia del tutto fallimentare?
Hitchcock e il MacGuffin: Psyco (1960)
Nel già citato libro-intervista Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, Hitchcock spiega al suo interlocutore – e quindi a noi – cosa sia il cosiddetto MacGuffin: un pretesto dell’intrigo, un elemento cruciale per i protagonisti del film ma privo di qualunque reale valore per chi guarda. Un abilissimo trucco di prestigio, utilizzato da Sir Alfred svariate volte. La più famosa delle quali è forse contenuta in Psyco, film che sovverte le più ostinate convenzioni del cinema di intrattenimento: non solo la protagonista muore dopo soli quaranta minuti, ma i 40mila dollari rubati ad inizio pellicola (che sembrano fulcro della narrazione) non avranno alcuna funzione nel prosieguo della storia se non quella di offrire un geniale depistaggio nei confronti del pubblico.
I MacGuffin hitchcockiani hanno fatto scuola, ispirando fra gli altri Quentin Tarantino (la valigetta di Pulp Fiction), i Fratelli Coen (il tappeto di Il grande Lebowski) e David Lynch (la scatola blu di Mulholland Drive).
Hitchcock e l’incubo: Gli uccelli (1963)
A fungere da motore dell’azione nei film di Hitchcock è molto spesso un pretesto anomalo, paradossale, casuale. Ma è proprio l’imponderabile casualità a diventare fonte di angoscia e insostenibile tensione. Gli uccelli, che narra di una cittadina californiana in cui un giorno i volatili di ogni specie iniziano ad attaccare gli esseri umani, è un’opera immediata e al contempo di complessa lettura, aperta a diverse interpretazioni: è un’allegoria sociologica? Una parabola ecologica? Una metafora religiosa? Nel dubbio, Hitch alimenta il caos facendoci sprofondare nell’incubo, caricando l’atmosfera di pathos e bersagliando nel profondo la nostra psiche.
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Nonostante dal 1964 al 1976 Hitchcock giri ancora altri cinque film, possiamo considerare Gli uccelli quasi una summa della sua arte, l’espressione massima e testamentaria di tutte le caratteristiche del suo irripetibile e stratificato modo di fare cinema.