Amarcord (1973): il significato del film di Federico Fellini
Amarcord, il capolavoro di Fellini è una riflessione 'impolitica' sul fascismo come luogo 'psicologico', come "stagione permanente della vita".
Amarcord, film con cui Federico Fellini conquista a pieno il favore del pubblico e della critica, critica che per la prima volta gli riconosce quasi senza voci fuori dal coro la raggiunta maturità artistica e lo stato di grazia della sua inventiva, fu girato a Roma (perlopiù a Cinecittà, ma non solo), Anzio, Fiumicino e Ostia antica, nei mesi tra il gennaio e il giugno 1973, per poi essere presentato fuori concorso al Festival di Cannes dell’anno successivo. Opera capitale e strutturata per capitoletti che condensano memorie ‘trasfigurate’, il film è un lungo canto d’addio alla Rimini un po’ magica un po’ opprimente in cui il regista spese l’infanzia e l’adolescenza, città natia poi abbandonata per Roma all’età di diciannove anni, nel 1939.
Amarcord: il titolo viene da una poesia di Tonino Guerra, co-sceneggiatore del film e compaesano di Fellini
Il titolo Amarcord è derivazione di “a m’arcord”, che, in dialetto romagnolo, significa “io mi ricordo”: è una citazione da un verso di una poesia di Tonino Guerra, coetaneo – era nato nel marzo 1920, due mesi dopo Fellini – e compaesano del regista: veniva, infatti, da Sant’Arcangelo di Romagna, a dieci chilometri di distanza, paese che Fellini definiva, con intento canzonatorio, “la periferia di Rimini”. Guerra, figlio di padre pescatore e di madre analfabeta, collaborò alla sceneggiatura riversandovi anche gran parte dei suoi ricordi tanto che Pier Paolo Pasolini, non senza una punta di veleno, fece prontamente notare che il titolo più adatto per il film sarebbe stato Asarcurdem, “noi ci ricordiamo”, a sottolineare la paternità (con)divisa dell’opera.
In realtà, nel film, per il quale il regista valutò in un primo momento anche il titolo Il borgo per accentuare la chiusura della mentalità provinciale e il senso di isolamento che caratterizza la vita nei piccoli centri, non confluiscono soltanto i ricordi di Fellini e quelli di Tonino Guerra, ma anche tranches de vie rubate alla prima giovinezza e alla vita in famiglia dell’Avvocato Luigi ‘Titta’ Benzi, migliore amico di gioventù del regista, figura reale a cui si ispira il personaggio di Titta Biondi. Se Fellini odiava la tendenza alle letture biografistiche delle sue opere, d’altra parte, fu inevitabile, all’uscita del film, che i riminesi cercassero al suo interno, nei personaggi eccentrici ed eccessivi che lo affollano, le glorie cittadine dei tempi che furono, gli uomini o le donne reali dietro le corrispettive maschere cinematografiche.
Film più che nostalgico del passato, interessato a coglierne l’intima essenza, l’impronta metafisica dietro il mero accadimento
Anche le coordinate temporali disseminate nel film sono incerte e contraddittorie: Amarcord si svolge da primavera a primavera, nell’anno del “gran nevone”, che fu, in verità, il 1929. Tuttavia, altri riferimenti portano a postdatare le vicende rappresentate in un anno tra il 1933 e il 1937. Siamo, in ogni caso, negli anni del consenso: non che sia appunto importante la collocazione storica, in quanto Amarcord non intende in nessun momento operare una ricostruzione d’epoca, imbalsamare in senso archivistico una società che, al momento della realizzazione del film, già non esisteva più.
Quel che Amarcord intende fare è rappresentare l’anima di una comunità di persone in preda a stravaganze più o meno accentuate, una comunità in cui il seme del fascismo attecchisce perché, in fondo, il terreno era predisposto ad accoglierlo, perché tra un gerarca nazista e un ragazzino del liceo, un professore di scuola, un padre di famiglia o una matriarca (la zdaura, perno della famiglia romagnola) non c’è poi molta differenza: in un mondo popolato da giullari, i fascisti sono appena più giullareschi di tutti gli altri, ma la distanza non è sostanziale.
Disinteressato al discorso politico e ancor più disinteressato al discorso colpevolizzante e all’attribuzione di responsabilità, in Amarcord Fellini va alla ricerca della misura di fascismo che alberga in ciascuno di noi, quella porzione ontologica o psicologica, a seconda di come la si voglia vedere, che ci spinge periodicamente a proiettare al di fuori un moto interno, una pulsione regressiva, un istinto securitario e mortifero.
Amarcord: secondo Fellini, “il fascismo è una stagione permanente della vita”
Come ebbe a dire Fellini, che non amava parlare dei suoi film se non una volta terminati e comunque sempre rifuggendo l’asfissia derivante da un eccesso di circostanziazione, “Amarcord voleva essere l’addio a una certa stagione della vita, quell’inguaribile adolescenza che rischia di possederci per sempre… Fascismo e adolescenza continuano a essere in una certa misura stagioni storiche permanenti della nostra vita. L’adolescenza, della nostra vita individuale; il fascismo, di quella nazionale: questo restare, insomma, eternamente bambini, scaricare le responsabilità sugli altri, vivere con la confortante sensazione che c’è qualcuno che pensa per te, e una volta è la mamma, una volta il papà, un’altra volta il sindaco, o il duce, e poi il vescovo e la Madonna e la televisione… […] io conservo l’impressione che nel microcosmo ritratto in Amarcord c’è anche qualcosa di vagamente repellente… Forse l’imbarazzo, il disagio, la ripulsa per il nostro modo di essere non ci va di avvertirlo, ci sembra di essere diversi, e che il fascismo è solo un fenomeno storico, una stagione della nostra vita, sonnolenta, sognata, dalla quale siamo miracolosamente rinati” (da Federico Fellini, L’arte della visione. Conversazioni con Goffredo Fofi e Gianni Volpi).