Andrej Tarkovkij: i film e la carriera del maestro del cinema russo
Perdersi con la mente, abbandonare l’attenzione razionale e galleggiare su un livello di ricezione più profonda. Questo e molto altro è Andrej Tarkovkij.
Sarebbe arrogante pretendere di parlare di Andrej Tarkovskij in poche righe, quasi impossibile farlo in maniera piena, per quanto ci si sforzi. L’intenzione non può essere che quella di provare a restituire, anche se solo un poco, la maestosa e impagabile qualità del suo lavoro.
Nato a Zavraž’e, in quella che fu la vecchia Unione Sovietica, il 4 Aprile del 1932, Andrej Tarkovskij è la figura più influente del cinema russo: fotografo, critico, sceneggiatore, montatore, scrittore, nonché uno dei registi più innovativi e influenti della storia del cinema. Dotato di una incredibile sensibilità fin dai primi anni di vita, soffrì tremendamente della partenza del padre così come si attaccò in maniera viscerale alla madre. Dal primo prese il grande amore per la poesia e dalla seconda invece la fervida religiosità, entrambi elementi che lo accompagneranno per tutta la sua vita.
Il debutto come regista e l’esplosione del “caso Tarkovski”
Il debutto dietro la macchina da presa lo segna il cortometraggio Gli uccisori, del 1956, tratto dal famoso racconto di Ernest Hemingway, in cui compare anche come attore.
Ma è il 1962 l’anno della vera opera prima. Il lungometraggio è L’infanzia di Ivan ed è la miccia che fa scoppiare il “caso Tarkovskij”: è senza precedenti la velocità della pellicola, che non segue i ritmi di narrazione tipici, ma si muove secondo un tempo reale; le lunghe carrellate nella natura, la successione di elementi onirici e metafisici non fa che rimandare ad un cinema visivo, astratto, più vicino alle arti figurative e alla poesia che al racconto. Un’opera centrata sulle emozioni dei personaggi, che prima del loro ruolo militare sono bambini, uomini e donne che sognano, si innamorano, ricordano e cercano di far sopravvivere le loro emozioni prima che la loro stessa vita.
Andrej Rubiev del 1966 è la pellicola in cui trova libero sfogo l’amore per la poesia di Tarkovskij e la sua incompatibilità con la logica del regime sovietico, dando vita ad una rilettura della storia russa del Quattrocento. L’uscita della pellicola fu ritardata dal regime per 6 anni, data l’intensità, la forza e l’aspra volontà che esprime nel ribaltare i concetti sociali e politici fondamento del regime sovietico, cercando nell’animo umano la base per costruire un Paese con una nuova anima.
Andrei Tarkovskij e il suo film più ibrido: Solaris
Nel 1972 esce Solaris, tratto dall’omonimo romanzo di Stanislaw Lehm, considerato universalmente tra i film più importanti della storia del cinema.
Probabilmente si tratta del lavoro più ibrido di Tarkovskij, perfettamente in equilibrio tra la spiritualità e gli elementi metafisici della parte visiva e la caratterizzazione dettagliata dei personaggi a livello di struttura narrativa. Le tre figure nella stazione intorno al pianeta oceanico Solaris sono tipici personaggi dostoevskijani, spersi nei meandri delle loro stesse emozioni, sopraffatti da quello che hanno dentro ed incapaci di orientarsi.
La figura di Hari, la moglie morta suicida di Kris, riportata in vita dal pianeta, introduce la tematica principale della pellicola: cosa ci rende umani? Dov’è che inizia la dignità dell’uomo e da cosa è composta? La capacità di amare e di provare dolore, di disperarsi e fuggire, di interrogarsi e di compatirsi, di abbandonarsi e di risollevari, ma soprattutto di nascere e, naturalmente, di morire. Solaris è in piena regola il tassello fondamentale per l’arrivo alla concezione de Lo Specchio, 1974, il più personale ed ermetico di Tarkovskij.
La narrazione comincia a sparire, i dialoghi sono quasi del tutto scalzati dalle lunghe sequenze della natura e dalle composizioni organiche di oggetti e visi; essi ricompaiono in qualche momento, ma sono quasi sempre circostanziali, mai legati alla sviluppo narrativo. Si preferisce dar spazio ad immagini di archivio, a reperti storici e a documenti per fare in modo che a parlare siano solo loro.
Dopo l’uscita del film fu vietato a Tarkovskij di girarne altri fino al 1979, quando, grazie ad un presidium del soviet supremo, fu permesso a Stalker di vedere la luce.
Tratto dal romanzo Picnic sul ciglio della strada, 1972, dei fratelli Stugrackij, la pellicola apre la seconda fase del cinema tarkovskijiano, andando in controtendenza con la produzione precedente. Anche se lo sviluppo narrativo rimane pressoché inesistente, la pellicola si concentra molto di più sui protagonisti, sui loro visi, sulle loro espressioni e i dialoghi riacquistano una dignità fondamentale; essi diventano i nuovi protagonisti. Di conseguenza, oltre alle canoniche carrellate sugli elementi naturalistici, religiosi e bellici presenti nella Zona, arrivano i primi piani, fermi, bloccati per enfatizzare le espressioni dei personaggi e la loro posizione quando dialogano.
Si parla della pericolosità dei desideri, di quanto possano essere sfuggevoli, ostili e incontrollabili perché aventi un’origine così oscura da sfuggire persino a consapevolezza e controllo. Ad esso è associato il tema della religiosità e della fede in primo luogo: lo stalker è un sacerdote, suo il compito di selezionare le persone adeguate e condurle al cospetto della stanza dei desideri, vera prova del miracolo sulla terra, ma solo dopo un tortuoso cammino che rappresenta il viaggio interiore alla ricerca della propria vera identità.
Nel 1980 arrivò in Italia per ricevere il David di Donatello per Lo specchio e dal 1982 decise di rimanere nel Bel Paese. Si stabilì a Firenze e trovò un sincero amico in Tonino Guerra, con il quale girò per la RAI il documentario Tempo di viaggio, uscito nello stesso anno del suo primo film fuori dalla Russia, Nostalghia, 1983. Fu su invito di Ingmar Bergman, che Tarkovskij si recò in Svezia dove girò Sacrificio, era il 1986 e quello fu l’ultimo film del genio russo.
A Parigi, il 29 Dicembre dello stesso anno, Tarkovskij si spense definitivamente, accudito dal figlio Andrej e della moglie Larisa.
L’immensa grandezza dell’opera di Andrej Tarkovskij non sta nella filosofia dietro i suoi dialoghi, nel montaggio perfetto o nell’uso magistrale della fotografia, ma è nel fine che vuole raggiungere. Secondo Tarkovkij quello che bisogna fare è perdersi con la mente, abbandonare l’attenzione razionale cosciente e galleggiare su un livello di ricezione più profonda, meditativa, quasi inconscia. Lasciarsi invadere da qualsiasi pensiero terzo, viaggiare senza aver timore di andare fuori strada, perché una strada non c’è.