Antonio Capuano oltre È stata la mano di Dio: chi è e cosa lo lega a Paolo Sorrentino
In È stata la mano di Dio, il giovane Paolo Sorrentino-Fabio Schisa incontra il regista Antonio Capuano, che cambia fattezze, ma non nome né personalità. Ecco qual è la sua storia e che cosa lo unisce a Paolo Sorrentino.
In È stata la mano di Dio, il film di Sorrentino vincitore del Leone d’Argento a Venezia, candidato ai Golden Globes e dal 15 dicembre disponibile alla visione su Netflix, verso la fine, compare un uomo paffuto e tarchiato: si alza dal suo posto, nel buio di una sala teatrale, e rivolge all’attrice in scena – una giovane straniera che lo idolatra e che sta, proprio in quel momento, interpretando il riadattamento di una qualche tragedia greca – parole ingiuriose, in condanna di uno stile troppo artificiale, decorativo, lontano da quella verità che sempre dovrebbe preservare, pur nella finzione, l’atto teatrale.
Fabietto Schisa, alter ego di Sorrentino da giovane, lo segue all’uscita del teatro: tra i due, poco dopo, si accende una discussione. Capuano, che di professione fa il regista teatrale, rivolge all’altro, che gli ha appena confessato di voler diventare anche lui regista e di essere in procinto di andarsene a Roma per studiare cinema, un monito dal significato opaco: “Non ti disunire!”.
Cosa vorrà intendere? Probabilmente, sta consigliando al giovane che ha davanti di non lasciare la sua città, di cercare lì le storie da raccontare. È quanto ha sempre fatto il vero Antonio Capuano, che Sorrentino ha voluto, nel suo film, interpretato da Ciro Capano, attore che, a rigore, non gli somiglia affatto: l’originale è, infatti, alto e segaligno, con gli occhi chiari e stretti, il volto magro e appuntito. La tempra, però, è ben replicata: il personaggio non nasconde i suoi modi grevi, che sono gli stessi del Capuano autentico.
Chi è Antonio Capuano
Nato a Napoli nel 1940, nella sua lunga carriera ha lavorato per teatro, televisione e cinema, ed è stato anche pittore, scenografo e insegnante all’Accademia di Belle Arti. Il suo debutto al cinema, dopo una faticosa gavetta, avviene nel 1991, con Vito e gli altri, storia di un padre di famiglia che massacra la moglie e un figlio, risparmiando l’altro, poi affidato a una zia e avviato alla vita di strada.
Privo di una guida, il ragazzino sopravvissuto, a seguito di una progressiva discesa agli Inferi, diviene sicario della camorra. Resoconto di un’infanzia terminata anzitempo e gettata in pasto alle fauci tentacolari di una città in fondo disperata, il film rivela il talento senza compromessi, volutamente disturbante, di un autore che sembra radicare nel realismo e invece s’apre al fantastico: alla realtà sociale di cui si fa reporter non fa comunque sconti, rappresentandone a tinte forti la ferocia senza appello.
Dopo aver firmato un episodio del film collettivo L’unico paese al mondo, realizzato per sensibilizzare l’opinione pubblica, in piena epoca proto-berlusconiana, sulla deriva morale e politica dell’Italia, si dedica al lungometraggio Pianese Nunzio, 14 anni a maggio, costruito attorno alla figura di un prete che si ribella alla camorra e ha un’ambigua relazione con un chierichetto tredicenne.
La collaborazione tra Antonio Capuano e Paolo Sorrentino, nel segno della “gioia”
Nel 1998 Antonio Capuano, che l’anno precedente aveva preso parte a un altro film collettivo, I vesuviani, lavora alla Polvere di Napoli, anch’esso antologico nell’articolazione, un omaggio all’amato De Sica. È per questo progetto che si avvale della collaborazione dell’allora regista ventottenne di belle speranze Paolo Sorrentino, a cui sceglie di fare da mentore: i due si mettono insieme a scrivere la sceneggiatura del film e cementano un’unione fondata sulla reciproca ammirazione (anche se, sia chiaro, Capuano resta il maestro e Sorrentino l’allievo).
A Capuano Sorrentino, in occasione del loro ultimo incontro al Cinema Troisi di Roma, ha riconosciuto di essere stato colui che gli “ha trasmesso la gioia di fare cinema” e, se pure come maestro “l’ha spesso ucciso“, poi l’ha anche sempre “resuscitato“.
Gli ultimi film del Maestro
Agli inizi del Duemila Capuano realizza Luna Rossa, riscrittura dell’Orestea di Eschilo, storia di una vendetta, maturata in ambito camorristico, che assume le proporzioni di una carneficina. Qualche anno dopo, nel 2005, convoca Valeria Golino a interpretare una madre affidataria ne La guerra di Mario, il dramma di un bambino sottratto alla madre naturale e al problematico ambiente d’origine per essere violentemente immesso in un contesto borghese.
La Golino torna, in veste di psicologa penitenziaria, nel film L’amore buio, storia di uno stupro di gruppo, le cui conseguenze non sembrano esaurirsi nell’assunzione di responsabilità da parte dei colpevoli. Gli ultimi lungometraggi diretti da Capuano sono, invece, a a sorpresa, una commedia farsesca dal titolo Achille Tarallo (2018) e un film drammatico, Il buco in testa (2020), ispirato alla vicenda dell’omicidio di Antonio Custra, poliziotto assassinato mentre prestava servizio durante una manifestazione di protesta organizzata da un gruppo di militanti di Sinistra: in questo suo ultimo lavoro, il regista, che sta pensando a un adattamento dell’Edipo Re di Sofocle, si misura con la memoria degli anni di piombo, di cui ha vissuto pienamente furori, angosce e contraddizioni.