Da Avatar ad Alita: le 10 innovazioni tecnologiche che hanno cambiato il cinema
La forma del cinema è in continua evoluzione e trasformazione: quali sono i progressi che hanno cambiato e stanno cambiando il nostro modo di pensare l'audiovisivo? E cosa aspettarsi dal futuro prossimo venturo?
La storia del cinema, lo sappiamo, è fitta di continui aggiornamenti, miglioramenti, mutamenti. Le evoluzioni riguardano anzitutto la narrazione, il modo di raccontare e di svolgere trame e contenuti, ma non solo: così, se il 1967 è l’anno di grazia della cosiddetta New Hollywood, intesa come ufficiale ingresso della cinematografia statunitense nella modernità (con due importanti modelli a cui guardare, Il laureato del 1967 e Easy Rider del 1969), negli ultimi anni – e a ragion veduta – ha preso piede anche la definizione di New New Hollywood.
Ma cosa si intende con New New Hollywood? Si intende, essenzialmente, una presa di coscienza: dal 1977 (anno di Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg e del primo mitologico Star Wars di Lucas) si inizia infatti definitivamente a parlare di effetti speciali, di simulazione di eventi impossibili da rappresentare in modo tradizionale. Un nuovo e diverso modo di intrattenere il pubblico, dunque, che procede di pari passo con le innovazioni tecnologiche rendendo sempre più indistinguibile la realtà dalla finzione, ingannanando e intrattenendo il nostro sguardo. Ripercorriamo la storia recente dei progressi tecnici della settima arte, un’avventura fatta di molti successi e di qualche curioso fallimento.
10 straordinari progressi tecnologici del cinema, dal 1980 ai giorni nostri
Polyester (1981) e l’Odorama
Cominciamo da un passo falso del passato: l’Odorama. Non accontentandosi del 2D (formato da lunghezza e larghezza), il cinema si è spesso ingegnato per stimolare gli altri sensi. Se la tridimensionalità è oramai entrata nell’uso comune (pur con alterne fortune), la nozione di “odorama” e di Smell-O-Vision si è persa nella notte dei tempi, restando nella memoria solo come memorabilia o bizzarria di cui non andare troppo fieri. Il concetto è semplice: per offrire un’esperienza il più immersiva possibile, i film si possono anche… sniffare. La tecnica, ideata nel 1958 da Hans Laube, viene proposta nel 1960 col film Smell of Mystery: durante la proiezione vengono rilasciati dei profumi, più o meno corrispondenti a ciò che sta accadendo sullo schermo.
L’esito fu fallimentare, con la quasi totalità degli spettatori o nauseati dalla mistura di odori che invadeva la sala o inferociti per il sibilo con cui gli aromi venivano spruzzati. Il successivo tentativo, Polyester di John Waters, fu più un omaggio che un effettivo tentativo di rilancio. Ma, nonostante questo, la trovata (stavolta basata sullo Scratch & Sniff, ovvero su un foglio con dieci zone da strofinare quando il film lo richiedeva) venne accolta con fastidio, decretando il definitivo tracollo dell’iniziativa. Una curiosità: nel 2011 Robert Rodriguez girò Spy Kids 4 – È tempo di eroi in 4D-AromaScope, utilizzando cioè lo stesso principio dell’odorama.
Terminator 2 (1991) e il Morphing
Oltre che per la sua sceneggiatura di ferro e per il suo impressionante senso del ritmo (che ha fatto da imprinting a tutta la fantascienza cinematografica successiva), Terminator 2 – Il giorno del giudizio è rimasto nella memoria collettiva anche per il suo ambizioso uso della computer-generated imagery (altrimenti detta CGI). L’ibridazione fra effetti artigianali ed effetti visivi computerizzati è realizzata con tale cura da risultare ancora oggi moderna e contemporanea, perfettamente all’altezza dei miracoli estetici cui ormai siamo abituati.
Fiore all’occhiello della pellicola è l’utilizzo del morphing, che trasforma un’immagine in un’altra in modo fluido e senza soluzione di continuità. Questa moderna dissolvenza incrociata, dopo i primi esperimenti risalenti al 1988 (Willow di Ron Howard) e al 1989 (Indiana Jones e l’ultima crociata di Steven Spielberg), trova la sua perfetta quadratura proprio in Terminator 2 col personaggio mutaforma T-1000, che può trasformarsi in chiunque tocchi. Un altro grande utilizzo del morphing? Il video musicale Black or White di Michael Jackson, sempre del 1991.
Jurassic Park (1993) e l’Animatronica
Spesso talmente realistici da risultare inquietanti, i soggetti animatronici sono di fatto robot con sembianze umane o animali. Il loro utilizzo cinematografico – visto che si tratta essenzialmente di pupazzi meccanici e non elettronici – risale al 1964, con il film Mary Poppins. L’animatrone in quel caso non era la protagonista Julie Andrews (anche se qualcuno potrebbe obiettare), ma un simpatico uccellino che, interagendo con i protagonisti, necessitava della verosimiglianza che la semplice animazione non poteva offrire.
Ad utilizzare ampiamente questa tecnologia è stato Steven Spielberg: lo spietato predatore marino di Lo squalo (1977) e il tenero alieno piombato sulla Terra di E.T. (1982) sono animatroni, così come appartiene alla categoria il gigantesco T-Rex di Jurassic Park. I dinosauri mossi in stop motion e quelli miniaturizzati e poi ingigantiti su pellicola sono solo un ricordo: i lucertoloni di Spielberg fanno paura sul serio, e gli omologhi realizzati totalmente al computer dei film successivi – lasciatecelo dire – impallidiscono al loro cospetto.
Toy Story (1995) e la Computer Grafica
Oggi, in un universo mediale in cui la computer grafica è onnipresente (anche quando non è necessaria), il concetto fa sorridere: Toy Story – Il mondo dei giocattoli, lungometraggio d’esordio di John Lasseter, è stato il primo film interamente realizzato in CGI. Buona parte del suo successo – fondato ovviamente anche sull’ottima sceneggiatura scritta fra gli altri dal Jess Whedon di The Avengers – deriva da questo strillo pubblicitario: per la prima volta lo spettatore in sala aveva l’opportunità di assistere alla meraviglia di un prodotto di pubblico consumo completamente creato e manipolato da un elaboratore automatizzato.
Con i suoi 114 mila fotogrammi di animazione Toy Story segna l’inizio di un’era, quella del rendering intelligente, talmente sofisticato da rendere indistinguibili realtà ed elaborazione matematica. Il miglior utilizzo di questa nuova scienza, che incrocia fisica, ingegneria, arte e graphic design, è oggi senza dubbio il videogame, che ha raggiunto (e continua a perseguire) vette inusitate di fotorealismo.
Il cavaliere oscuro (2008) e l’IMAX
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Dicesi IMAX un sistema di proiezione che mostra immagini e video con una risoluzione decisamente superiore rispetto ai sistemi convenzionali. L’IMAX modifica le abitudini non solo di chi fa i film, ma anche dello spettatore e dei cinema che intendono usufruirne: occorrono proiettori appositi (che possono arrivare a pesare fino a 1,8 tonnellate) e sale realizzate con specifiche caratteristiche, da cui derivano prezzi di manutenzione esorbitanti sovente insostenibili.
Da un punto di vista registico, girare nativamente in IMAX richiede un gran dispendio economico, sia che si tratti di pellicola (rigorosamente in 70mm) che in digitale. Il primo film parzialmente girato con questa tecnologia è stato Il cavaliere oscuro, che contiene ben 28 minuti di riprese in IMAX 70mm; mentre il primo ad essere stato girato interamente in IMAX digitale è Sully (2016) di Clint Eastwood (e non, come si è portati a pensare, Dunkirk di Nolan, uscito nei cinema l’anno dopo).
Avatar (2009) e il cinema digitale
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Se si parla di innovazione tecnologica non si può ignorare di certo Avatar, il film dei record. Fin dalle origini del progetto – risalenti al 1996 – il regista James Cameron aveva in mente qualcosa di colossale e avveniristico: la storia dei Na’vi e di Pandora sarebbe stata girata interamente in digitale, e avrebbe usufruito delle migliori tecniche all’avanguardia a disposizione per offrire un’esperienza il più immersiva possibile. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: Avatar è il film con il maggior incasso della storia del cinema, ha conosciuto un’ampia diffusione in 3D e in 3D IMAX ed è il primo ad aver realizzato maggiori ricavi nelle sale predisposte per le proiezioni in digitale (rispetto a quelle tradizionali).
Il passaggio al D-cinema ha costituito una vera e propria rivoluzione, andando a sostituire praticamente in toto il simbolo del cinema per eccellenza, la pellicola. Dall’impressione su nastro si è passati così all’acquisizione di immagini in movimento. Un flusso di dati che ha reso la vita molto più semplice a registi e addetti ai lavori: le telecamere digitali costano meno e sono meno voluminose delle cineprese, i tempi di produzione si accorciano considerevolmente, ed è possibile rimediare a eventuali errori nel girato con pochi accorgimenti. Ma così, obbietteranno i nostalgici, si perde la magia del cinema, la sua profondità e la sua pastosità. Vero, innegabile, ma esistono ancora i cineasti che preferiscono la celluloide al freddo utilizzo del computer (come Quentin Tarantino, che ha girato il suo The Hateful Eight in pellicola UltraPanavision 70mm).
Hugo Cabret (2011) e il 3D
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La storia della tridimensionalità è lunga quasi quanto quella del cinema. Già dai primi anni del ‘900 si inizia a parlare di stereo-cinema, anaglifo, Teleview, ma il primo effettivo tentativo di commercializzazione del 3D su larga scala risale agli anni ’50: tra il 1952 e il 1955 svariate pellicole escono nelle sale perlopiù in versione stereoscopica, e fra queste figurano anche opere d’autore come Hondo di John Farrow (1954, con John Wayne) e Il delitto perfetto di Alfred Hitchcock (1954, considerato come uno dei migliori esempi del processo).
Nonostante i suoi continui fallimenti, il 3D periodicamente torna a fare capolino con l’annuncio di una nuova tecnologia in grado di eliminare i fastidiosi inconvenienti derivanti da una visione che inganna occhi e cervello (come il mal di testa, la sensazione di nausea e l’impossibilità di sedersi in posti laterali che annullano l’effetto). Nonostante i dubbi permangano, è altresì vero che negli ultimi anni il 3D nativo abbia fatto passi da gigante, rendendosi in taluni casi importante se non fondamentale: come in La leggenda di Beowulf (2007), Coraline e la porta magica (2009), Hugo Cabret (2011) e Inside Out (2015).
Vita di Pi (2012) e il 4K
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Nella continua e ormai indistinguibile mescolanza di medium televisivo, cinematografico e informatico, la risoluzione 4K è diventata uno dei parametri fondamentali per la definizione della qualità estetica di un prodotto. L’alta definizione, passata per il 720p, il 1080p e il 2k, è approdata dunque ai 4 mila pixel: una nomenclatura che a breve – non è dato sapere quanto: questione di marketing – verrà superata dal 5K, con cui ad esempio è già stata girata la trilogia di Peter Jackson Lo Hobbit.
Rispetto ad altre conversioni (come l’imbarazzante mutazione forzata dal 2D al 3D di certi film), il passaggio al 4K porta sovente a ottimi risultati, a una effettiva evoluzione dell’immagine che non snatura l’opera di riferimento. In tal senso, il mercato dell’home video punta molto su questa novità: opere come Terminator 2 (1991), Salvate il soldato Ryan (1998), La tigre e il dragone (2000) e Vita di Pi (2012) hanno conosciuto una seconda giovinezza “casalinga” grazie alla transizione in Ultra HD.
Allumette (2016) e la Virtual Reality (VR)
La strada che porta alla realtà virtuale – o, per meglio dire, ad un suo utilizzo soddisfacente – è ancora lunga e irta di ostacoli. Non si parla ovviamente di narrazioni che affrontino il tema (di cui la storia recente del cinema è piena: da Tron a Il tagliaerbe, da Johnny Mnemonic a eXistenZ) ma della sua effettiva buona riuscita su ampia scala. La realtà simulata, che richiede un’interattività e un fotorealismo tali da permettere di navigare in tempo reale in ambientazioni totalmente avvolgenti, è diventata recentemente oggetto di studio dei maggiori festival di cinema mondiali, quali Venezia, Tribeca e Sundance.
La sfida, già ampiamente vinta per quanto riguarda i videogame, è appunto oggi come oggi quasi esclusivamente cinematografica: come rendere visivamente e narrativamente manipolabile oggetti ed esperienze di per sé e quasi per definizione finiti, con un inizio e una fine stabilite? Il risultato migliore, al momento, sembra essere un cortometraggio animato del 2016: Allumette, creato dai Penrose Studios. In 20 minuti si dipana l’avventura di una madre e di una figlia mentre si dirigono verso una città prodigiosa ed eccentrica composta da isole galleggianti. Chi ne ha fruito parla di un racconto umano generoso basato su ambientazioni maestose, capace anche di far piangere. La strada verso la realtà aumentata, come dicevamo, è lunga; ma gli investimenti e l’attenzione che la VR sta ottenendo in quesi ultimi anni ci insegnano che questo non è solo che l’inizio.
Alita – Angelo della battaglia (2019) e la motion capture
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Tratto dall’omonimo manga del 1990 (su cui aveva già puntato gli occhi il James Cameron di Titanic e Avatar, che da potenziale regista è diventato produttore della pellicola), Alita – Angelo della battaglia sposta se possibile ancora più in alto l’asticella del rinnovamento tecnologico. Il film di Robert Rodriguez, nuova meraviglia digitale distribuita anche in 3D IMAX, si fa notare soprattutto per il suo particolare utilizzo della motion capture, la registrazione computerizzata del corpo umano per produrre movimenti realistici in film ad alto tasso di effetti speciali.
Per Alita si parla in particolar modo di facial motion capture, perché il processo di conversione è maggiormente concentrato sulle espressioni della protagonista interpretata da Rosa Salazar. Il risultato, per quanto straniante e quasi inquietante, non è una totale novità: l’expression tracking è già stata infatti utilizzata in Il curioso caso di Benjamin Button (2008) e in Avatar (2009). Nota a margine: lo specialista assoluto della motion capture è l’attore britannico Andy Serkis. È lui a vestire i panni di Gollum nel Signore degli Anelli, di King Kong nell’omonimo film del 2005 e dello scimpanzé Cesare nella nuova saga del Pianeta delle scimmie (per il quale si sostenne anche una candidatura all’Oscar).