Cos’è il body horror e quali sono i film migliori da vedere
Approfondimento su un genere, simbolo del rapporto fra il cinema e la rappresentazione del corpo umano.
La messa in scena del corpo umano è una delle costanti di tutta la storia del cinema. Edgar Morin spiega come questo rapporto fra il corpo e la sua rappresentazione fotografica prima e filmica poi, rimandi al rapporto fra il ricordo e il fantasma dei viventi, fra la memoria dei morti e un presente che si esplica nelle figure in movimento sullo schermo (Frezza, Dissolvenze, 2013).
In qualche maniera dunque l’immagine filmica del corpo è sempre una sintesi del divenire stesso insito nella natura organica del corpo umano. Essa sembra fissare in eterno le forme degli attori registrate dalla macchina da presa. In realtà, ne sottolinea la caducità intrinseca, una volta che la singola immagine di un attore viene considerata durante l’intero arco temporale della sua carriera e dunque alla luce dei cambiamenti di fisionomia e di inevitabile deperimento fisico.
Il cinema e il corpo: la nascita del body horror
Il cinema, più di altre forme d’arte, ha mostrato di saper riflettere su sé stesso e sulle proprie peculiarità. Così è accaduto che il rapporto fra immagine del corpo umano e decadenza organica sia stato sovente chiamato in causa nella poetica di vari autori e si sia addirittura configurato come il fulcro estetico/concettuale di un genere vero e proprio, il body horror.
Gli antesignani del body horror: David Cronenberg e John Carpenter
Il body horror è un filone dell’horror che mette in scena il corpo umano, inteso come un mero contenitore di materiale organico, pronto a essere scomposto, decomposto e ri-assemblato, al fine di ottenere risultati spettacolari e disturbanti. La critica generalmente sostiene che sia nato in U.S.A. fra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, quasi come una sorta di risposta inconscia e dissacrante al culto del corpo perfetto e all’edonismo dell’era reaganiana. Ed effettivamente film come Il demone sotto la pelle (1975), Brood. La covata malefica (1979), La mosca (1986) e Videodrome (1983), tutti diretti da David Cronenberg, raccontano di un’umanità sull’orlo di un cambiamento bio-antropologico, catalizzato dai cambiamenti sociali in atto nel periodo in cui tali pellicole vennero prodotte.
Nel primo film, quella libertà sessuale, che il sociologo Lasch vede come elemento fondante della cultura post-sessantottina, individualista e apolitica, prende le forme di un enorme mostro vermiforme. Questo si introduce all’interno dei corpi umani e diventa un nuovo organo, in grado di stimolare gli impulsi sessuali. In Brood, la retorica sulla famiglia tradizionale e sul ruolo materno della donna si manifesta in una madre mutante le cui ovaie divengono uova organiche, generatrici di figli mostruosi pronti a distruggere l’umanità. In La mosca, il processo di un corpo immerso in un irrisolto divenire altro da sé, un altro animale, chiama in causa il superomismo pop, propagandato dalla contemporanea gym culture, capovolgendolo nella messa in scena del disfacimento dell’umano nel mostruoso. Infine in Videodrome il corpo umano subisce modifiche e alterazioni in seguito alla sua prolungata esposizione alla televisione. Forse il più legato alle coeve tematiche del cyberpunk, questo film pone i semi per tutte le future speculazioni sul cambiamento antropologico determinato dalla crescente simbiosi dell’uomo con una tecnologia dell’immagine, in grado di cambiare la percezione della realtà (e gli organi percettivi dell’uomo stesso).
Se Cronenberg comunque presenta, in maniera inquietante, queste forme di orrore corporeo come un tentativo, per il momento irrisolto, di un’evoluzione dell’umano stesso, o quantomeno della sua autorappresentazione – bisognerà aspettare il recente Crimes of the Future (2022) per comprendere a pieno le prospettive artistico-evoluzioniste del regista canadese – sul versante opposto troviamo John Carpenter.
Con La cosa (1982) Carpenter sostiene che non vi è alcun disegno evolutivo nel caos di forme di un corpo costantemente imprigionato all’interno di un processo di divenire che varia dall’umano all’animale, fino all’alieno. Siamo davanti semplicemente a un mostruoso, incomprensibile e predatore, il cui unico obiettivo è sostituire l’umano con il non-umano. Esattamente come avveniva già in Alien (Scott, 1979), altro film dove l’alieno è rappresentato da un corpo fissato in una forma a metà fra l’umano, l’animale e il macchinico e dove il concetto di riproduzione organica diventa un incubo infernale.
L’età dell’oro: gli anni ottanta
Cronenberg e Carpenter rappresentano un cinema in grado di utilizzare i generi, che in definitiva propone una visione autoriale del genere stesso. Ma i concetti veicolati dal body horror hanno trovato larga diffusione soprattutto nell’horror vero e proprio, in particolare quello a basso budget, dove gli effetti visivi artigianali, fatti di lattice, sangue finto, gomma e meccanismi pneumatici divengono il fulcro estetico attorno cui costruire storie strambe e deliranti. Per esempio in Basket Case (1982) di Henenlotter, il tema del doppio viene riletto in chiave parodica e il protagonista Duane si trova a portare in giro, in un cestello di vimini, il proprio gemello siamese, Belial. Quest’ultimo,uest’ultimoQ però, è un torso con braccia, simile a un tumore che ha preso vita e sembra incarnare tutta la rabbia, la violenza e la repressione sessuale di Duane. Insomma il doppio di un corpo umano è un’immagine artificiale, un pupazzo, fatto di gomma ed emozioni violente. A suo modo Henenlotter espone la propria opinione sulle radici dell’immagine umana nel cinema horror.
Horror in Bowery Street (1987) di Muro, si fa ricordare per le implosioni di sangue e carne/gomma dei corpi deformi di barboni dediti al consumo di una strana bevanda, il Viper. Effetti simili, ma all’interno di una trama che vorrebbe essere un attacco al potere delle multinazionali, li produce anche Stuff – Il gelato che uccide (Cohen, 1985). Entrambi i film sono un indice della percezione di un cambiamento in negativo nella salute fisica degli americani, determinato dal consumismo alimentare.
L’ossessione del cinema di questo periodo per la ricerca dell’essenza dell’umano, nella rappresentazione delle sue forme organiche, assume un ruolo paradigmatico nei film di Stuart Gordon, Re-Animator (1985) e From Beyond – Terrore dall’ignoto (1986) (vagamente tratti da Lovecraft). Nel primo è in gioco la questione base dell’immaginario gotico, quella legata alla possibilità, tramite la tecnologia, di restituire la vita ai morti o a singole parti di un corpo defunto. Come le ventiquattro fotografie al secondo del cinema restituiscono il movimento/vita a immagini altrimenti congelate/morte nel tempo, così fa il siero che il Re-Animator, Herbert West inietta a singoli organi o a cadaveri interi. Nel secondo film tale concetto viene ampliato alla possibilità di sopravvivere alla morte fisica in uno spazio metafisico, da cui imporre il proprio controllo sulla materia organica. Gordon caratterizza, in From Beyond, il proprio cinema come luogo liminare dove la vita e la morte diventano un flusso unico di forme biologiche in metamorfosi. Di conseguenza, all’interno di tale visione, ciò che è umano si può identificare solo attraverso la sua capacità di dominare e riarticolare queste forme per mezzo di un principio logico, metafisico o semplicemente libidico.
Forse però il film che più rappresenta il body horror a basso budget del periodo è Society – The Horror (1989) di Yuzna. Per molti versi si tratta di un film-manifesto, dove l’immagine di un’orgia di corpi che si fondono e trasformano in figure degne di Bosch, diventa l’immagine di una classe sociale dominante, ricca e promiscua, che tira le fila di un edonismo spietato, intento a divorare, letteralmente, i corpi di coloro i quali non fanno parte dell’élite al potere. Per Yuzna, all’opposto di Gordon, il cinema non crea nuova vita e nuovi corpi, ma svela la realtà della vecchia carne, al di là delle apparenze di un mondo consumista, appariscente e fatuo.
Il cyberpunk giapponese
Se negli Stati Uniti il body horror si configura come un filone specifico dell’horror, in Giappone, tale etichetta designa più una serie di topoi narrativi ed estetici che si dipanano, soprattutto durante gli anni novanta, in opere anche molto diverse fra loro. Si trovano elementi di body horror in serie di film sui samurai, come Lone Wolf and Cub (Misumi, Kuroda, Saito, 1972-74), in svariati anime, da Ken il guerriero (autori vari, 1984-88) ad Akira (Otomo, 1988), fino ad arrivare ai famigerati Hentai, anime porno dove le violazioni e trasformazioni del corpo sono inscindibili da una sessualità perversa e polimorfa.
Però è nella variante giapponese del cyberpunk che il body horror mette in atto tutte le sue potenzialità estetiche. In occidente quest’avanguardia artistica si concentra sul rapporto fra l’uomo e il nuovo paradigma epistemico digitale, in un futuro distopico. Nel Paese del Sol Levante, invece, trova la sua ragion d’essere nella messa in scena della mutazione della biologia umana, catalizzata dalla tecnologia industriale. Film come la trilogia di Tetsuo di Shin’ya Tsukamoto, raccontano la nascita di un nuovo concetto di umanità, frutto dell’innesto dell’organico con il macchinico, in una metafora marxista per cui l’alienazione della società industriale (Tetsuo. The Iron Man, 1989), postfordista (Tetsuo. The Body Hammer, 1992) e del capitalismo digitale (Tetsuo. The Bullet Man, 2009) si reifica nella rappresentazione di un corpo che perde la sua natura organica, diventa macchina industriale, arma vivente e infine corpo svuotato di organi, alla ricerca di un nuovo statuto ontologico. Il tutto in un tripudio di membra che diventano ferro, peni trasformati in trivelle, proiettili sparati da cavità organiche, soggettive che mimano la visione di una videocamera e fluidi corporei che inondano lo schermo.
Organ (1996) dell’attrice e regista Kei Fuijwara offre una variante all’innesto uomo macchina, attraverso la rappresentazione dell’innesto umano/vegetale. Shozin Fukui in 964 Pinocchio (1991) e Rubber’s Lover (1996) si concentra invece sul valore erotico di corpi mutati per espandere le proprie possibilità sensoriali, tramite una sorta di digitalizzazione genetica. Infine Anatomia Extinction (Nishimura, 1995) segna il passaggio del cyberpunk allo splatterpunk. Il film racconta nuovamente una mutazione dell’organismo umano in arma vivente, ma senza le complessità filosofiche di uno Tsukamoto o le provocazioni punk di un Fukui. Qui semplicemente si tratta di mettere in scena variegate esplosioni di violenza, durante fantasiosi combattimenti fra esseri il cui corpo inizia a diventare il corrispettivo organico dei Mecha robotici – concetto, questo che verrà ripreso e ampliato in Meatball Machine (Yamaguchi e Yamamoto, 2005).
Da questo momento in poi il body horror nel cinema di genere nipponico assume, per lo più, il ruolo di elemento decorativo per storie sempre più folli e cartoonesche, come quelle narrate in Mutant Girl Squad (Iguchi, Nishimura, Sakaguchi, 2010) o Tokyo Gore Police (Nishimura, 2008).
L’elevated horror contemporaneo e il recupero del body horror in chiave intellettuale
Nel panorama del cinema del primo ventennio del ventunesimo secolo, il body horror ha continuato a sopravvivere, nella sua forma più pura, nei meandri dell’horror indipendente e underground. Lo si trova in prodotti realmente di nicchia, di diverse nazionalità, con una diffusione legata per lo più al mercato home video, come i film degli italiani Alex Visani e Davide Pesca. Inoltre continua a essere una delle componenti principali dell’horror statunitense, stilema costante di opere di autori come Lucky McKee o James Gunn. Il primo con May (2002), per esempio ritorna sul tema dell’assemblaggio dei pezzi di cadavere, atto a generare un nuovo essere, calandolo in un contesto psicologico di suburbia disturbata. Mentre Gunn offre con Slither (2006) un divertente mix fra L’invasione degli ultracorpi (Finney, 1955) e Il demone sotto la pelle.
Negli ultimi anni la tendenza dominante, però, sembra essere, da un lato, quella di recuperare la mostruosità organica all’interno di narrazioni autoreferenziali, che si rifanno proprio al cinema degli Eighties, come in The Void (Kostanski e Gillespie, 2016), che si pone sulla falsariga delle trasposizioni splatter lovecraftiane di Gordon. Dall’altro, il body horror inizia a essere trattato da autori lontani dall’estetica dei generi, che vi trovano elementi particolarmente adatti a descrivere i cambiamenti legati alla percezione delle categorie di rappresentazione sessuale, di gender ed etnica in atto nell’immaginario mediale contemporaneo.
Il film vincitore di Cannes 2021, Titane (Ducournau, 2021), per esempio, costruisce la sua riflessione sull’identità di genere e la fluidità sessuale a partire da un amplesso cronenberghiano fra una donna e un’automobile e fa del corpo femminile la cartina di tornasole dell’emergere di nuove forme di autorappresentazione non binaria. Su un versante più legato alla tradizione horror, ma letta da un autore lontano dal genere, il remake di Suspiria (Guadagnino, 2018), vede, a sua volta, nella corporeità femminile e nelle sue violente distorsioni fisiche, il punto di partenza per descrivere la commistione fra bellezza e orrore, in atto durante ogni radicale cambiamento storico e sociale.
Si tratta, in questi casi, di un utilizzo intellettuale di elementi dell’orrore del corpo, tipico di quello che viene definito elevated horror. Che questo cambiamento di paradigma per il body horror rappresenti una conquista di rispettabilità intellettuale borghese o un addomesticamento delle istanze più radicali, intrinseche alla natura stessa del genere, è ancora tutto da vedere – sebbene una risposta parziale la fornisca, forse, il già citato Crimes of the Future.