BoJack Horseman, Big Mouth e gli altri: la depressione raccontata dalle serie animate
BoJack Horseman, Big Mouth, ma anche Rick & Morty. Esploriamo come le serie TV animate per adulti raccontano la depressione.
La vita disegnata e contorta, confusa e angosciante; delle voci nella tua testa, fantasmi in technicolor, che ti ricordano quanto poco tu valga; un gattone pesantissimo che ti ricopre e – greve come un macigno – ti impedisce di alzarti dal letto. L’esplosione di serie animate per adulti (di grande, enorme qualità) negli ultimi anni ha portato con sé un valore aggiunto: la possibilità di affrontare problemi sociali, culturali e mentali con una chiarezza e una libertà che spesso non è possibile avere in un prodotto live action. Serie come BoJack Horseman, da poco giunto alla sua ultima stagione, Big Mouth, ma anche Rick & Morty, tra una risata e l’altra, tra i momenti epici di non sense e profonda ilarità, hanno inchiodato lo spettatore alla poltrona bombardandolo con le sue ansie più recondite e avvolgendolo con le sue problematiche più oscure e profonde.
Attenzione: l’articolo contiene SPOILER di BoJack Horseman, Big Mouth e Rick & Morty
La depressione “personificata”: Ih-Oh e quella tristezza infinita
Facciamo un passo indietro e, come fossimo seduti nell’ufficio di uno psicoterapeuta, cerchiamo di ricordare la nostra infanzia. Sfogliamo le pagine dei libri illustrati e riaccendiamo il televisore su un canale che trasmetta Le nuove avventure di Winnie the Pooh. Sapete già dove vogliamo andare a parare: quando si pensa a personaggi depressi, emblemi di una tristezza infinita e stereotipata, si pensa all’asinello Ih-Oh (Eeyore nella versione in inglese).
La serie animata, come gli altri innumerevoli adattamenti dei libri di A.A. Milnes, sfrutta l’animale come “personificazione” della tristezza e simbolo della depressione la quale però, come ogni altro disturbo mentale (perché sì, è una patologia psichiatrica), ha innumerevoli forme. Qualcuno si sarà identificato in Ih-Oh e nella sua “diversità” se paragonato agli altri abitanti del Bosco dei 100 Acri: in un mondo di individui gioiosi, la malinconia patologica lampeggia come un semaforo.
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Eppure, la cosa più importante nel filone narrativo di Ih-Oh è notare come i suoi amici gli si rapportano. L’esempio per i giovani spettatori dovrebbe essere positivissimo. La blogger Lydia Wagner, in un articolo intitolato What Eeyore Taught Us About Being Sad (Quello che Ih-Oh ci ha insegnato dell’essere tristi), ha scritto:
Winnie the Pooh e il resto del gruppo non si sono mai presi gioco della tristezza di Ih-Oh. Non l’hanno mai considerato pazzo o anormale. Anzi, si prendono cura di lui. Lo invitano a partecipare a tutte le avventure pur sapendo che potrebbe non accettare o prenderne parte controvoglia. Gli amici di Ih-Oh sono i migliori del mondo. Capiscono che lui è come è e che non ha nulla di cui vergognarsi. Si prendono cura di lui anche se non è conveniente e molto, molto difficile.
La depressione, in un prodotto per bambini il cui fine pedagogico è palese, è rappresentata come una condizione normale (nel senso che esiste e che non va stigmatizzata). Winnie the Pooh cerca di porre le basi per una generazione più attenta ad affrontare la salute mentale con consapevolezza, la stessa generazione che venticinque dopo guarderà Rick & Morty.
Quando ti senti congelato: la depressione di Rick in Rick & Morty
Rick and Morty è un cartone per adulti di genere fantascientifico che segue le vicende dello “scienziato pazzo” Rick Sanchez e del nipote Morty Smith. È divertentissimo, pregno di cultura pop e a sua volta ispiratore di spot pubblicitari e gag de I Simpson. Oltre a tutto questo, però, i fan hanno spesso tessuto le lodi dei creatori Justin Roiland e Dan Harmon per aver ritratto con un’accuratezza iper-realistica la depressione.
Essa è rappresentata specificatamente da Rick il quale, spesso, rimane “congelato”, incapace di reagire alla depressione che lo attanaglia, scosso da tendenze auto-distruttive e dalla devastante consapevolezza di non riuscire a reagire.
Rick è altamente funzionale: è un genio creativo. Eppure, negli episodi nei quali i due protagonisti non vivono delle avventure clamorose, lo scienziato soffre di depressione patologica, una tristezza attanagliante che lo paralizza. Questo è uno stato che, coloro che soffrono di tale disturbo, conoscono molto bene: riescono a fare il necessario, compiono le loro missioni quotidiane rimanendo produttivi anche nei momenti più critici. Per questo capita che sia difficile accorgersi della depressione di chi ci sta accanto: all’apparenza non c’è nulla che non va.
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Allo stesso tempo Rick affronta la sua condizione attraverso l’abuso di sostanze e una forte impulsività, come spesso accade a coloro che soffrono di depressione. La serie non teme di mostrare al suo pubblico i lati più negativi, le conseguenze più drammatiche del sentirsi “patologicamente tristi”, offrendo a coloro che potrebbero identificarsi in Rick un appiglio catartico da non sottovalutare.
Harmon stesso ha sofferto di depressione e, quando su Twitter un fan gli ha chiesto che consiglio potesse dargli per superare una crisi, la sua risposta è stata molto chiara: “non affrontarla da solo. Accetta che sta accadendo. La consapevolezza è tutto. Mettiamo noi stessi sotto una mare di pressione per sentirci bene. Va bene sentirsi male. Comunicalo. NON TENERLO SEGRETO. Indossalo come un cappello o una giaccia. I tuoi sentimenti sono reali”.
Se la depressione è così pesante da bloccarci al terreno: il gatto viola di Big Mouth
All’inizio ti senti al sicuro, coccolato. Poi la sensazione cambia: la rassicurazione lascia spazio al panico; quel peso che inizialmente era un rifugio ora è pesante come un macigno troppo pesante da sollevare. Il conforto si trasforma in una trappola. È la rappresentazione che la serie animata Big Mouth dà della depressione: un gattone viola, sinuoso e ammaliante, infido e – se gli diamo il permesso di sovrastarci – pesantissimo.
La serie è un grande racconto sull’adolescenza, sui cambiamenti puberali e sull’evoluzione fisica, mentale e sentimentale che tutti viviamo in gioventù. Sembra una lezione di educazione sessuale, ma è anche un trattato sull’accettazione di sé. Ciò che rende Big Mouth tanto prezioso è il fatto che tutti i momenti “didattici” di cui si compone non appaiono come esperienze sconnesse, come esempi stand-alone o un montaggio del peggio che ci si possa aspettare dall’adolescenza. Tutto è interconnesso, ogni esperienza si ciba dell’altra con un meccanismo di causa-effetto che forma un’esistenza intera.
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Lo show decide di rappresentare le caratteristiche dell’adolescenza in maniera estremamente letterale. Se, quindi, l’arrivo del desiderio sessuale è rappresentato dai Mostri Ormonali, l’imbarazzo è incarnato dallo Spirito della vergogna, lo Shame Wizard, un essere malvagio che crea veri e propri stati di panico e di auto-commiserazione. È l’età nella quale impariamo a odiare noi stessi, a sentirci in colpa davanti alle nostre scelte, a quello che facciamo e che diciamo, davanti a ciò che siamo. Ed ecco che arriva il Gatto della Depressione.
Dopo il divorzio dei suoi genitori e il distacco dai compagni di scuola causato dai cattivi consigli del suo mostro ormonale, Jessi cambia radicalmente. Le prova tutte, ma c’è qualcosa che non va. Tenta di riempire il vuoto con dei furtarelli, prova la marijuana di suo padre, ma nulla le porta chiarezza o un minimo di pace. Il gatto della depressione si appropria del suo tempo da un momento all’altro, la mette a letto in pieno giorno, le dà del gelato e si posiziona sopra di lei, come una coperta caldissima e rassicurante. Pian piano Jessi non riesce più a sollevare il peso del felino e, a un certo punto, nemmeno le interessa.
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Una rappresentazione così letterale e spaventosa della depressione non sarebbe possibile per nessun altro prodotto e Big Mouth l’ha azzeccato in pieno con una parentesi di pochi minuti. Eppure ci è voluta un’intera stagione per arrivare a quella rappresentazione così chiara, una rappresentazione esponenzialmente inquietante della vergogna, della confusione, della paura, dell’imbarazzo e, infine, della depressione giovanile che spesso superiamo in pubertà, ma che può nascondersi nelle nostre insicurezze, pronta ad affliggerci nei momenti di debolezza. E allora alzarsi dal letto da soli diventa impossibile: qualcuno (o qualcosa) deve scacciare il gattone che ci sovrasta.
Sentirsi buoni a nulla: la grandi lezioni di vita di BoJack Horseman
BoJack Horseman è terminato da pochissimo e nell’ultima stagione abbiamo assistito a una delle rappresentazioni della depressione più interessanti di sempre. Diane – che aveva già manifestato difficoltà a gestire la propria salute mentale in seguito alla rottura con Mr. Peanutbutter – si ritrova a vivere una vera e propria crisi depressiva mentre tenta di scavare nella propria giovinezza (nel rapporto coi genitori e coi compagni di scuola) per scriverne un libro. Si ritrova a cadere sempre più in basso, consapevole di “non aver nessun buon motivo per essere depressa”, come se servisse una scusa.
Bojack Horseman – stagione 6: recensione della prima parte
A risollevarla sono gli anti-depressivi, l’amore del suo compagno Guy (che incarna in maniera perfetta le reazioni di un uomo qualunque che si trova impotente davanti alla patologia che affligge una persona cara, ma che prova in ogni modo ad aiutarla) e il tempo.
La situazione di Diane si affianca a quella del protagonista, BoJack, la cui presenza nella serie è da sempre caratterizzata da uno stato depressivo che, negli anni, ha provocato in lui un’insormontabile dipendenza da alcool e droghe. Nell’episodio 6 della quarta stagione, però, troviamo la più incredibile dimostrazione di ciò che spesso sente nella propria testa chi soffre di ansia e depressione. BoJack immagina che chiunque lo circondi provi per lui un odio viscerale, che lo consideri un buono a nulla, un fallimento; contempla il suicidio, ma si ferma: “Solo i migliori muoiono giovani, tu non te lo meriti”.
BoJack Horseman racconta la storia di BoJack, un uomo-cavallo che negli anni ’90 era la star di una famosissima sit-com. La serie è pregna di satira sul mondo dello spettacolo e sugli eventi contemporanei in generale, ma al centro – spesso – troviamo proprio la fatica di mantenere la propria salute mentale a discapito di situazioni di crisi e le conseguenze che i nostri conflitti interni spesso provocano nei rapporti interpersonali e nella nostra vita lavorativa. Lo show Netflix è diventato un culto anche e soprattutto per questo: tutti affrontiamo momenti di crisi in maniera più o meno patologica e, spesso, vedere la nostra realtà rappresentata sullo schermo ha un effetto catartico.
Bojack Horseman – stagione 6: recensione del finale della serie TV
BoJack Horseman parla in maniera lucida di sentimenti umani ed è ironico che lo faccia attraverso un cavallo antropomorfo. Racconta quel sentimento di vuoto che spesso ci ritroviamo ad affrontare, racconta l’inadeguatezza che ci attanaglia, la ricerca della felicità: un sentimento che spesso, per motivi che non ci sono mai davvero chiari, non sentiamo di meritarci. La serie non ci offre soluzioni semplici o risposte universali perché non ce ne sono; serve tutto: le medicine, persone fidate e buona volontà, certo, ma soprattutto serve tempo. E ripensando al finale della serie TV – un finale aperto, che ci lascia immaginare quello che verrà, che fornisce allo spettatore il potere di decidere come andrà avanti la vita di tutti e che ci chiede di sforzarci di credere che tutto andrà per il meglio – ci rendiamo conto che tutto torna. E ci ricorda una realtà brutale, ma necessaria: non esiste il lieto fine perché la vita prosegue. “Every day it gets a little easier. But you gotta do it every day, that’s the hard part. But it does get easier”. Dobbiamo solo darci tempo.