Big Mouth – stagione 3: recensione della serie TV Netflix
La nostra recensione della stagione 3 di Big Mouth, la serie Netflix che racconta il dolore e la confusione che accompagnano la pubertà.
Big Mouth è uno dei prodotti coming of age più complessi, completi, interessanti e divertenti di sempre. Arrivato alla sua terza stagione – che ha debuttato su Netflix il 4 ottobre 2019 – lo show creato da Nick Kroll, Andrew Goldberg, Mark Levin e Jennifer Flackett è tante, tantissime cose messe insieme, unite da un comune denominatore: una brillante e intelligente vena comica.
La storia di formazione in gioco è quella di un gruppo di adolescenti animati: maschi, femmine, etero, omosessuali, bisessuali, pansessuali. Figli di genitori separati o che si amano tantissimo, figli di madri in menopausa, di padri bizzarri, figli di genitori single e figli di genitori assenti. Lo spettro di personaggi di Big Mouth è uno dei più ampi e più reali che potrete trovare sul piccolo schermo, perché nessuno di loro in particolare è protagonista. In qualche modo lo sono tutti, grazie al filo rosso che conduce le loro storie: la pubertà. Il cambiamento selvaggio interiore ed esteriore che condiziona in maniera profonda gli adulti che un giorno diventeranno.
A guidarli sono gli ormoni che scorrono copiosi nelle loro vene, che escono dai loro pori dilatati, che offuscano la capacità di prendere decisioni razionali e che prendono vita grazie a dei veri propri esseri mostruosi che, come un’ombra, non li abbandonano nemmeno per un momento. Ognuno ha il proprio mostro ormonale il cui unico scopo è quello di cercare di superare gli imbarazzi angoscianti dell’adolescenza (magari soddisfando qualche voglia incombente, nel frattempo).
Big Mouth: il programma più educativo della TV
Big Mouth è una serie furba, dolce e divertente e folle. È farcita di genitali disegnati, peni pelosi che assomigliano a fedeli cagnolini e vagine parlanti. Tutto molto comico, se non fosse che riesce persino a essere educativo e sensibile a temi sociali attualissimi come pochi altri prodotti riescono a essere. E questa terza stagione non accenna a rallentare il treno didattico che la serie ha messo in moto e che procede a tutta velocità con episodi come Il Planned Parenthood Show della stagione 2 dove, oltre a spiegare gli obiettivi dell’organizzazione, apparivano (in stile The Bachelor) tutti i tipi di metodi anticoncezionali esistenti, ognuno con i propri pregi o difetti.
E lo sappiamo che Big Mouth sembra un gran casino, ma basta abbandonarsi alla sua innata brillantezza per rendersi conto di quanta qualità lo show disponga. Basti pensare al line-up di comici e personalità che prestano la loro voce alla serie in versione originale. Dagli esilaranti John Mulaney e Nick Kroll (il quale doppia circa una dozzina di personaggi) a Jenny Slate, Gina Rodriguez, Kat Dennings, Maya Rudolph, Jordan Peele, Jon Hamm, Fred Armisen e Kristen Wiig.
Nel corso dei nuovi 10 episodi disponibili (il primo episodio della nuova stagione è lo Speciale di San Valentino) veniamo trascinati attraverso argomenti sociali impellenti che ci fanno ragionare sulla rape culture e su come, in maniera tristemente reale, se una ragazza viene molestata, a cambiare devono essere i suoi vestiti perché in fondo “so’ ragazzi” e gli istinti animali dei maschi sono, per l’appunto, selvaggi e incontrollabili. C’è una canzone (cantata da un certo Martin Short) sull’ampio spettro dell’identità sessuale e c’è un intero musical ispirato al film del 1994 Rivelazioni che ragiona sulle molestie sul luogo di lavoro e sull’assurdità dei ruoli di genere. Ma c’è anche un episodio quasi interamente ambientato all’inizio del ‘900 con il Duke Ellington doppiato da Jordan Peele che racconta la propria adolescenza a suon di jazz.
Big Mouth: il dolore, l’imbarazzo e la confusione del diventare adulti
Se c’è una piccola insignificante critica che andrebbe mossa alla terza stagione di Big Mouth è la sua narrazione poco eterogenea da episodio a episodio. Le storie procedono in maniera schematica e poco organica passando dalla dipendenza da smartphone alla mascolinità tossica, dalla pansessualità all’incesto tra cugini e alle complicazioni della masturbazione. Manca – rispetto alle stagioni precedenti – uno schema generale che guidi le vicende, che bilanci i mini archi narrativi con una più ampia riflessione unificatrice. Tra i momenti più coinvolgenti della stagione 2 ricordiamo, per esempio, il Gatto della depressione, essere maligno, oppressivo, soffocante, che si insinua nella nostra vita e – come un enorme felino diabolico e troppo pesante da spostare – ci impedisce di alzarci dal letto al mattino. Il Gatto della depressione torna anche nella stagione 3 perché si sa: è una creatura infida, sempre pronta ad approfittare delle nostre debolezze.
Eppure, nonostante il nuovo ciclo di episodi si ponga su un gradino inferiore rispetto ai suoi predecessori, Big Mouth resta incredibile e sindacare sull’omogeneità delle sue storie, sempre divertenti e originali, non ha molto senso. La serie, come un adolescente in piena crisi ormonale, cerca di trovare se stessa e per farlo prova cose diverse. Indossa maschere, cambia modo di vestire, si trasforma e si reinventa.
E questo è quello che funziona davvero di Big Mouth: è semplicemente una grande storia di formazione. Non è solo humour zozzo o battute brillanti e meta-televisive (spesso indirizzate a Netflix stesso). Questa è una serie che capisce e spiega la pubertà in tutto il suo imbarazzante splendore. E capisce anche le problematiche di genere, l’ipocrita bigottismo che spesso accompagna l’universo femminile (e la sua percezione da parte di coloro che non ne fanno parte). Capisce il dolore del cambiamento, della scoperta di sé, della mancanza di autostima e della fatica che ne accompagna la formazione. Capisce la confusione del diventare grandi e si assicura che chiunque sia seduto in quel momento davanti allo schermo non se ne dimentichi mai.