Bones and All: 5 (+1) motivi per vedere il capolavoro di Luca Guadagnino
La bellezza (e la necessità) di Bones and All, punto per punto.
Inspiegabilmente censurato ai minori di quattordici anni, Bones and All è un’elegia del primo amore, in cui la ferocia sanguinosa della pulsione cannibale (ma soprattutto della solitudine che tale pulsione produce come conseguenza) trova il suo controcanto nella sublime delicatezza del riconoscersi e del corrispondersi perché amarsi è, in fondo, sempre un fatto ‘pulito’. Ecco le ragioni per le quali questo è un film necessario. Ed è obbligatorio (!) vederlo.
Luca Guadagnino si è fatto grande
Luca Guadagnino è un regista che gli anglofoni definirebbero unapologetic: non sente il bisogno di compiacere. In Chiamami col tuo nome, forse a oggi il suo maggior successo, esplora l’emergere di un desiderio, al di là della definizione del suo oggetto e lo fa inserendo il suo racconto d’iniziazione amorosa – ma, come spiega bene il padre del giovane protagonista, questa iniziazione potrebbe non accadere mai, ed è una benedizione che si sia prodotta, qualsiasi sia la sua forma – in una cornice altoborghese, di sensuale abbandono alla bellezza di paesaggi interni, gli arredi di una sontuosa abitazione patrizia, ed esterni, in una Lombardia struggente nella sua compostezza distillata, quasi idillica.
Si tratta solo di un esempio fra tanti possibili, perché qualcosa, nel cinema di Guadagnino, è sempre sembrato faticare per resistere alla maniera: benché la sua ricerca si sia sempre concentrata su materie difficili – perché scivolose e pulsatili, e quindi inafferrabili, o perché pulsionali, e pertanto disturbanti –, l’amore per l’immagine, la sublimazione estetica, il dominio apollineo sul magma dionisiaco di cui il regista si dimostra capace ha spesso prodotto un effetto di raffreddamento che talvolta si traduce in estetizzazione, con significative ricadute sul movimento, sul ritmo del racconto, sulla naturalezza percepita di certi passaggi di vento. Una qualità e un limite.
In Bones and All, Guadagnino trova invece un equilibrio quasi miracolistico: l’arte, qui da intendersi anche nel senso di artificio, bilancia, grazie a un processo di raffinazione condotto sino ai suoi esiti estremi, compiuti e perfetti, la materia rappresentata: la violenza di una pulsione che sopraffà soprattutto chi la avverte e talvolta non riesce a reprimere, a stornarla da sé. Bones and All è un lungo poema per immagini e parole (meditatissime), in cui, neanche per mezzo secondo o mezzo frame, si avverte la gratuità di una soluzione registica, il virtuosismo tecnico o l’elemento iconografico e drammaturgico accessorio. È un’opera-mostre e un’opera-mondo, in cui Guadagnino non perde mai il controllo sullo strumento e, in virtù di ciò, riesce a nascondere lo sforzo, nonché la complessità della genesi e della composizione di un’opera appunto tanto esigente.
Bones and All: Taylor e Timothée, les enfants magiques
Taylor Russell e Timothée Chalamet sono Maren e Lee, giovani cannibali rigettati dalla famiglia (la prima, ma va detto che non è così semplice) o in un rapporto complicato con la stessa (il secondo, e vale il medesimo appunto di cui sopra). Si fiutano, si riconoscono, si lasciano guardare dall’altro e per la prima volta vedono sé stessi, si prendono carico l’uno dell’altro, ma la metafora è stonata, perché il peso, in due, si divide fino a evaporare del tutto, e non è un caso che entrambi evochino la leggerezza degli angeli. Insieme vagabondano per l’America alla ricerca di qualcosa di concreto che pian piano si rivela e si delinea – e allora il vagabondaggio diventa viaggio verso una meta –, ma soprattutto, poiché vogliono essere migliori dei loro padri, si protendono in una tensione verso un modo proprio, singolare nel duale, di assomigliare agli altri, ai ‘normali’, a quelli che sono nati liberi da un demone interno.
Russell e Chalamet sono giovani adulti, ma possiedono qualcosa di follettistico che li solleva dall’età: senza la loro delicatezza oltremondana, Bones and All non sarebbe se non un film volgare. Agli attori, quali corpi – corpi animati, spiritualizzati – di mediazione, viene richiesto lo sforzo più gravoso: non vanificare la bellezza di un testo, scritto o visivo che sia, non sciupare la fatica di un lungo lavoro apparecchiato. Russell e Chalamet non solo non vanificano e non sciupano, ma esaltano il dettato.
Lo fanno perché mostrano un’intelligenza interpretativa senza pari: il carisma che emanano è una rinuncia completa alla potenza performativa, è una resa a una vibrazione, è un farsi attraversare, deposizione di ogni ego attoriale, di ogni pretesa di fare accadere la scena con il solo esercizio di volontà. Un ginocchio appuntito di Timothée Chalamet comunica più di tanti volti vuoti e patinati messi a riempire uno schermo. In lui, tutto è magia: potenza erotica incarnata come Marlon Brando, scarnisce, però, ‘fino all’osso’ – non è citazione casuale – il desiderio contemporaneo, radicalizzandolo con i suoi guizzi mercuriali e le sue profondità lunari che preservano, però, sempre qualcosa di arioso, di intuitivo, in continuo moto di ribellione nei confronti delle strutturazione e della definizione.
Il bello di prendersi dei rischi
È confortante sapere che, al mondo, esistono persone che, come Guadagnino e Chalamet (che non solo recita, ma produce), si prendono la responsabilità di adattare un libro su cannibali innamorati – l’omonimo romanzo di Camille DeAngelis – e di farne un film che si rivolge a un ampio bacino di pubblico con l’alto rischio che possa non essere capito da gran parte di quello stesso pubblico, e anzi liquidato con sprezzo o persino deriso.
Quando, in una delle prime scene del film, Maren, invitata a una festa notturna a casa di una compagna di scuola, non resiste alla tentazione di mozzicare il dito di un’altra, capiamo di trovarci di fronte a un film che, in alcuni momenti, ci mostrerà qualcosa che non vorremmo vedere. Che anche la storia d’amore tra Maren e Lee, nella sua grazia, non compenserà il disgusto che, a tratti, proveremo per i personaggi che pure, nel loro amarsi reciproco, sentiamo di amare intensamente anche noi.
Ciò che Bones and All fa non è facile: educa, senza averne l’aria, chi guarda sia a non fermarsi al piano della lettera sia a farlo. Anche qualora il cannibalismo non fosse un simbolo, noi dovremmo accettarlo quale lettera nuda che non rimanda a nessun altro piano di significato: se il postulato è che l’amore è uno spazio protetto, un luogo in cui i mostri non possono entrare, noi dobbiamo ribaltarlo. L’amore è un posto in cui dev’esserci spazio per tutto: anche per i mostri più spaventosi, quelli insediati dentro di noi. L’amore non è l’antidoto ai mostri, non è il sentimento salvifico della disinfestazione, ma la sopportazione del sostare, del lasciarsi guardare, anche quando ci troviamo in loro compagnia.
Bones and All: l’America dei relitti è un poema di viaggio
Bones and All è il primo film di Guadagnino interamente girato negli Stati Uniti. Il regista siciliano, che pareva così a suo agio nel dramma da camera borghese, si misura con personaggi ai margini, derelitti e seminomadi, recuperando lo stilema-principe della letteratura narrativa, e di conseguenza del cinema, a stelle e strisce: il viaggio on-the-road che espone l’individuo al dialogo con l’ambiente, con una dimensione naturale prepotente, in cui la presenza umana è rarefatta e, se non indifferente, ostile. Rapace come Sully.
Nella movenza dolce del film, quasi ondulatoria come un cullare, Guadagnino delinea un ritratto lirico del Paese che funziona da lente universalizzante: Bones and All non è storia d’orrore, ma un coming-of-age, un romanzo di formazione amorosa che si staglia dalle screpolature di case-camper, o di case-baracche, o nelle distese di terre disabitate, soltanto fiancheggiabili su un auto in corsa. I cieli pastello, che si accendono o si smorzano a seconda del ciclo del sole, riflettono terreni umidi o secchi, specchi d’acqua di lago in cui bagnarsi nudi con i fuochi d’artificio che segnalano una festa a cui partecipare restandosene a mollo, in disparte.
Bones and All è un lungo poema di viaggio che ricorda un po’ Nomadland e la desolazione commovente di certe solitudini che trovano nell’ambiente che le testimonia uno specchio opacizzante, in grado di attutirne dolcemente, in un filtro quasi analogico che è fatto come di cotone, la durezza della riproduzione.
Bones and All: il film suona bene dal primo all’ultimo secondo
La musica punteggia tutto il film: Guadagnino mostra, al solito, una grande attenzione per la qualità del suono e per gli immaginari che il suono stesso può evocare. A pezzi più melodiosi, affidati alla chitarra acustica e scritti appositamente per il film dal duo Trent Reznor and Atticus Ross, s’alternano brani storici del pop metal (Lick It Up, dei Kiss, su cui Lee-Timothée Chalamet si scatena, poco dopo aver incontrato Maren), del post punk dei Joy Division (Atmosphere), del buon pop americano d’antan (Manuelo, di Eileen Barton) e del cantautorato d’autore di raffinatissima fattura (You Want it Darker, di Leonard Cohen). L’armonia si confonde nell’elettricità di certi suoni duri, metallici. Di nuovo, troviamo l’antinomia che si fa binomio di tenerezza e crudeltà.
Bones and All: l’amore è (non) mangiarsi
Se volessimo trovare un senso più alto allo spavento che sorprende Maren e Lee ogniqualvolta si riconoscono diversi e pericolosi per gli altri, dovremmo leggere Bones and All come una fiaba nera nella quale il cannibalismo dei protagonisti si fa metafora di una spinta a divorare che divora essa stessa chi, subendola su di sé, la agisce verso gli altri. Eppure, la pulsione che li spinge a ‘mangiare’ altri esseri umani non sembra volgersi mai reciprocamente, non sembra torcersi mai all’interno della coppia.
Maren e Lee non desiderano mangiarsi e la stessa rappresentazione delle loro grammatiche affettive non assume mai una fenomenologia orale: i loro baci non sono famelici; il loro modo di toccarsi è arginato, controllato, sembra incontrare puntualmente una barriera invisibile. La coppia è uno spazio sacro, in cui il vampirismo è interdetto. Sarebbe sbagliato vedere in Maren e Lee l’evoluzione dell’archetipo dei vampiri: loro sono un’altra cosa. Bones and All configura, infatti, un poetico paradosso: amare significa salvare chi si ama dal proprio appetito. Che ce lo mostrino due cannibali trasforma un teen romance di sbranatori in una parabola quasi evangelica: amore è preservare chi si ama dai propri denti; amore è un sempre un fatto pulito, anche se affonda nel sangue.