Buster Keaton: l’eloquenza del muto attraverso 5 pellicole epiche
Siamo costretti nelle parole chiave. Grottesco, comico, drammatico. Le forme spurie dell’arte non sono facilmente assimilabili. Non ha mai avuto importanza che ci fossero categorie inespresse, contaminate da canali poco cinematografici come il teatro, i vaudeville. Durante quest’ultimi, che iniziarono a diramarsi anche nei viali di New York ad inizio secolo scorso, un piccolo uomo imparò a muovere i primi passi e a cedervi alle cadute, per mille volte e mille ancora.
Joseph Keaton. Egli non era una persona, un colloquiante astratto, era un dividuo. Visse per recitare al limite dell’oltraggio personale. Nietzsche affermava che non dovremmo chiamarci individui ma dividui. L’individuo non è altro che uno spettatore, un essere dividuo è colui che riesce a scindersi e distinguere la propria dualità. Il suo cinema non è solo uno scorrere fluttuante, ma una citazione multiforme, il teatro che mostra i suoi sedimenti, la sua architettura, senza turbarne il senso ontologico.
Nelle sue pellicole intraprende le vesti dell’inadeguato, i figli dell’ultima fila. Senza vergogna, senza nascondere l’ironia di trovarsi in condizioni strambe e dal risolino spontaneo. Non si ride per moto di compassione a mio avviso, ma si ritrova il sorriso di una commedia pura, senza intercapedini. È solo la degenerazione della nostra comicità che ha bisogno di una spolverata.
Il suo primo film muto degno di nota è un cortometraggio, The Playhouse (1921), in cui lui recita nove ruoli diversi all’interno di un Teatro, per l’appunto. Grazie ad effetti speciali che erano sbalorditivi per i tempi, si riuscì nell’impresa di moltiplicare la sua persona all’interno di una stessa immagine: curioso che nella versione francese il titolo fosse Frigo Fregoli, un richiamo esplicito a Leopoldo Fregoli, celebre attore e trasformista italiano dal quale derivò il nome di una patologia psichiatrica riconosciuta come un delirio di trasformazione somatica. Keaton dimostra con grande intelligenza che non si può e non si deve temere l’acrobata di strada, il saltimbanco o il lavoratore sfruttato, poichè l’unico male che sa arrecare è a sé stesso. Si devono temere le cose imperiture come le scrivanie, le cravatte, le guerre.
Il suo teatro non nasce da un’idea precisa, per sua stessa ammissione, ma dal vivere lo spettacolo, farlo germogliare dall’interno con perfezionamenti legati all’impatto con il pubblico. L’idea nasce postuma o meglio viene interiorizzata dopo un certo tipo di esperienza, viene prima l’esposizione poi la composizione. Non si rendeva conto inizialmente della sua comicità, era spontanea, naturale, un organo al di sopra di tutto che riproduceva un mondo nuovo, proiettava su di sé l’idea inconsapevole del ridicolo stare a quel mondo.
Nel 1923 esce Our Hospitality in cui è affascinante vedere come egli dirige, come spesso accade, la pellicola con un senso di leggerezza verso un tema così difficile quale la faida familiare, che di certo non è una novità nella letteratura, nel teatro o nella storia, si basti pensare ai Montecchi e Capuleti, Borgia e Medici, Malatesta e Montefeltro. Qui siamo alle prese con le dispute di McKay e Canfield, che com’è logico che accada, non conosce l’epilogo drammatico del reale ma dello sconfinato ruolo salvifico dell’amore. Eppure nei suoi film non c’è bene, non c’è male, non ci sono eroi. C’è il mondo, il suo, da inetto, disadattato e quello esterno, caotico, scivoloso quasi liquido. Lui non critica, è una critica. Non mostra ma dimostra. Non nasce, non muore, si compie. Non esistono obiettivi da raggiungere, sono illusori: essi esistono solo a livello di trama, per necessità.
Ciò accade in Sherlock Jr (1924) e in The general (1926). Il primo mostra il proiezionista di un cinema che aspira a diventare un detective e il secondo un uomo che nonostante venga respinto per l’arruolamento durante la guerra di secessione americana, alla fine non solo arriva a parteciparci ma porta il conflitto alla vittoria.
Buster Keaton – il pioniere del cinema muto
I suoi personaggi malauguratamente si perdono nelle vittorie, nel raggiungere lo scopo che possa essere un lavoro, ambire ad un matrimonio, una donna o al successo personale. Una volta varcato il traguardo svanisce qualsiasi interesse verso l’esterno, i personaggi si appiattiscono, schiacciati dal sentimento antiproustiano dell’appagamento (ingannevole). La mancanza di una continuità, di un richiamo temporale che avesse una traccia, una cellula da riscoprire, un’odore da rievocare. Una vita da ricondurre allo splendore inconsistente, perchè non è mai realmente desiderata con purezza ma per dovere o esigenze cinematografiche.
L’uomo che raggiunge il culmine dei suoi più profondi desideri non fantastica, lui lo fa perchè è insoddisfatto, è un sognatore che finge che le sue intenzioni siano state placate dagli eventi. Buster amava l’imprevisto, era la sua arma, il suo scudo e ne faceva una scuola di comportamento. La sua era una timidezza appercettiva, una dote che non è mai stata così folgorante. Il suo film più interessante però è un corto sperimentale del 1964, Film, diretto da Alan Schneider su sceneggiatura di Samuel Beckett. Il senso che accompagna la pellicola nella sua interezza è la celebre formula che riassume la filosofia di Berkeley, “Esse est percipi“.
Ciò in Film è destrutturato e riportato in un valore assoluto di visione, alla specificità dello sguardo indagatore, l’ossessione dell’immagine che si rinnega al punto che essere percepito è l’inevitabile recidiva dell’esserci. Le macerie quanto mai necessarie di una vita rigettata. Keaton evita ogni sguardo, ogni occhio umano, ogni parvenza di riflesso, ogni fotografia, tutto ciò che sia ricordo, memoria, percezione. Solo la telecamera lo segue, lo sovrasta, non rispetta la sua volontà di essere ignorato. Ed è solo alla fine di tutto che trova il coraggio di svelarsi e scoprire chi osa spiare insistentemente i suoi gesti: è il suo dividus, l’altro, l’eremita, è lui, sono i suoi occhi, il suo odio.
Un essere geniale, che sceglie, si muove come le parole, attraverso di esse ma senza di esse, come un cappotto che si lascia aderire al corpo, ai bottoni allineati, già parte di quello strato denso che ostacola corpo e anima. L’arte ci si attacca, una calamita che non ha bisogno di poli positivi o negativi, ma solo di somiglianze. Quel suo ruolo recitativo non è passato o superato. È moderno, come si intendeva la modernità nell’800: transitoria e immutabile. Essere ricchi tornando alla povertà, amare la bellezza vestita di fango e stracci. Keaton smise di recitare, stanco ma non sazio. Seppe guardare il mondo con gli occhi di Adamo e consacrò il proprio genio alla folla, miserevole, sciocca e misteriosa.