Editoriale | Cannes 2018 e quella narrazione valorizzata dal Palmarès
Con l'assegnazione della Palma d'Oro si è conclusa l'edizione 2018 del Festival di Cannes lasciando come sempre tanti, forse troppi, spunti di riflessione. Il grande ritorno dell'Italia sul podio e la vittoria di Shoplifters segnano così una svolta nell'edizione delle novità organizzative
Cannes 2018 si è concluso ieri, 19 maggio, con un Palmarès piuttosto intuibile, sulla base della qualità narrativa delle opere e meno di quel gusto per l’opera ricercata, non sempre immediatamente fruibile, che ha spesso caratterizzato il primo festival del cinema per importanza. Quest’anno – in effetti – le sorprese sono state meno rispetto agli anni passati, con l’Italia che ha visto riconoscersi due opere importanti e bellissime con altrettanti premi importanti: miglior interpretazione maschile per Dogman e miglior sceneggiatura per Lazzaro Felice.
Quest’ultimo premio, in particolare, ha tuttavia stupito per l’ex equo con il film di Jafar Panahi, Three Faces che – a dispetto della maestria che usualmente caratterizza il regista – è risultato a mio avviso carente proprio dal punto di vista della scrittura, trascinando per circa 1 ora e mezza una trama piccola e ricca di digressioni non molto funzionali alla narrazione, in cui un’attrice famosa iraniana va alla ricerca di un’aspirante collega che ha dichiarato (e mostrato) in un video di aver commesso suicidio. Un premio, quello per la miglior sceneggiatura, che onestamente spesso lascia desiderare a Cannes, con paradossi – considerando solo gli ultimi anni – che hanno toccato il frammentario Chronic di Michel Franco, l’ermetico You Were Never Really Here di Lynne Ramsey e il presuntuoso e gratuitamente disturbante The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos. Tutti film in cui è proprio la scrittura a mostrare i maggiori problemi.
Per quanto riguarda la regia, invece, non ci si può certo lamentare, avendo visto trionfare il bellissimo Cold War del regista polacco Paweł Pawlikowski, una raffinata metafora della Guerra Fredda, che nel film ha il volto di due innamorati male assortiti in lotta contro se stessi e la politica del luogo in cui vivono per trovare uno spazio nel mondo in cui poter stare insieme. La regia è simbolica, incastrata in cornici in 4:3 che dipingono la chiusura di una situazione immodificabile, in cui la libertà ha un costo amaro. Premio più che meritato.
Il Premio per la miglior interpretazione femminile ha visto trionfare la protagonista di Ayka, Samal Esljamova, grande interprete di un dramma piuttosto vuoto e inconcludente, ritratto statico di una donna che non può tenere suo figlio e si trova nella condizione di cercare di fuggire dagli oggettivi impedimenti fisici per riprendere immediatamente a lavorare dopo il parto, essendo costretta a rialzarsi in fretta per non arrendersi alla miseria. Un’occasione mancata per la superba Zhao Tao di Ash is purest white, che ha messo in scena una straordinaria trasformazione attraverso gli anni e gli eventi, dopo aver scontato al posto del suo uomo – un pericoloso gangster – una pena ingiusta per averlo difeso. Un film sulla fragilità della memoria, in grado di cancellare anni di vita con un colpo di spugna, impedendo alle persone di ricordare chi sono, gravate dal peso del tempo e del disincanto.
La parte più “calda” del Palmarès è stata riservata a Capharnaüm di Nadine Labaki (Premio della Giuria), con un meritato riconoscimento per la maestria con cui ha messo in scena la storia di un bambino libanese che ripudia i proprio genitori, arrivando a denunciarli per averlo messo al mondo, a BlacKkKlansman di Spike Lee – premiato forse più per le intenzioni che per il risultato, sicuramente meno dinamico rispetto a quanto lo spunto avrebbe permesso, con la Palma d’Oro finita nelle mani del sensibile regista giapponese Kore-eda Hirokazu e il suo significativo Shoplifters. Cannes 2018 ha quindi deciso di offrire il suo massimo riconoscimento a un’opera delicata e profonda, in grado di sollevare un dibattito morale importante su cosa significhi la parola “famiglia”, troppo spesso definita superficialmente da un legame di sangue. Il nucleo protagonista del film di Kore-eda Hirokazu è legato da generosità e opportunità, in contrapposizione a ciò che la legge considera lecito, senza prendersi il disturbo di considerare il caso singolo e limitandosi ad applicare regole universali e spesso nocive per il reale bene delle persone.
Tornando all’Italia, sicuramente Cannes 2018 avrebbe potuto riservare ancora di più, data l’altissima qualità delle sue opere. Ma la grande vittoria è comunque aver visto premiati tre film dei quattro presentati nelle varie sezioni (Troppa grazia di Gianni Zanasi ha trionfato alla Quinzaine des Réalisateurs) con l’unico film passato inosservato Euforia di Valeria Golino, presentato nella sezione Un Certain Regard, che ha visto trionfare lo stranissimo Gräns del regista Ali Abbasi, metafora non del tutto riuscita del confine flebile e contraddittorio fra normalità e anomalia, bene e male, che vede protagonista una coppia di trolls transgender in lotta per integrarsi nel mondo umano.
Ma il Festival di Cannes è anche questo, fra premi comprensibili e altri meno, con un’edizione – quella che si è appena conclusa – caratterizzata da più di un problema organizzativo, tale da rendere ostico per i giornalisti riuscire a vedere tutti i film principali. Fortuna che il volto commosso e sorpreso di Marcello Fonte è riuscito a far dimenticare in fretta ogni contrarietà e fastidio. Viva L’Italia e viva l’ottimo cinema…à bientôt!