C’era una volta a… Hollywood: la rivincita di Quentin Tarantino sulla Storia
Il filo rosso sul Male che sconfigge il Passato lega insospettabilmente Django Unchaned a Inglorious Basterds, culminando proprio con C’era una volt a... Hollywood.
Lo aveva accennato nel corso di un’intervista Quentin Tarantino stesso: il suo C’era una volt a… Hollywood è idealmente l’ultimo di una trilogia che capovolge il corso della Storia. Siamo abituati al cinema distopico che guarda ai futuri possibili. Sul grande schermo, il destino dell’umanità oltre i nostri millenni conosciuti si estende nello spazio da esplorare e in mille fantavisoni che popolano e rimpolpano l’immaginario da sempre. Il regista di Knoxville invece non guarda alle stelle e ai wormhole come Nolan, né brucia i libri come il più futuristico Truffaut. Capovolgendo l’oggetto cinema come ha sempre fatto, guarda quasi ossessivamente al passato, manipola la Storia scritta creandone versioni proprie, che sanno di rivincita. Insomma, in barba alla distopia, sfrutta l’ucronia per un ideale tutto suo di ciò che fu.
C’era una volta a… Hollywood – le citazioni del film di Quentin Tarantino
Come Tarantino scava nella Storia, noi ora guarderemo al futuro del minutaggio di ognuno dei suoi tre film cruciali per questo percorso, osservandone direttamente i finali. Proprio la fase conclusiva costituisce la virata per tutti e tre i titoli che sono, oltre al nuovo C’era una volt a… Hollywood, nelle sale dal 18 settembre 2019, Bastardi senza gloria, del 2009 e Django Unchained, del 2012.
Il Male del passato che ha afflitto l’umanità in vari modi è nemico di Mr. Tarantino. E siccome il nostro ha lontane origini italiane che gli hanno donato un cuore grande, ma è allo stesso tempo un americano dalle mani forti come un protettivo interventista, l’autore non poteva che misurarsi con degli iperbolici what if narrativi.
C’era una volta… a Hollywood è il terzo film di una trilogia
Perciò, macchina da presa alla mano, e sardonico come sempre, mette in fila i suoi antierori impolverati, politicamente scorretti, ma soprattutto pronti all’azione. Prima ci gioca senza pregiudizi, ma poi sconfigge inevitabilmente il grande nemico di tutti: il Male. In questo stile di rappresentare il suo cinema di vendetta, il regista impenna le sue tre storie come lo farebbe un bambino: facendo vincere i buoni a ogni costo. Per questi motivi la lettura che segue è pregna di spoiler, soprattutto per il nuovo lavoro che celebra Hollywood a fine anni sessanta.
C’era una volta Brad… e la rivincita contro i nazisti
La corsa di Tarantino nelle viscere della storia ucronica inizia con un war-movie pieno di azione e tensione spezzate da memorabili spacconerie dei personaggi. Inglorious Basterds segna intanto la prima presenza di Brad Pitt nella cinematografia dell’ex-commesso di videoteca più geniale di sempre. Dettaglio da casting che tornerà utile più avanti.
Mentre l’Europa è piegata dall’avanzata tedesca, non gli Alleati, ma proprio quei buontemponi degli americani spediscono in Francia un plotone di soldati scelti esperti in spionaggio, guerriglia e imboscate per fare fuori quanti più nazisti possibile. Dopo indicibili peripezie tra “scalpi ai crucchi”, fughe rocambolesche e ammazzamenti ancor più fantasiosi che violenti, l’obiettivo finale della missione, raggiunto ovviamente nel più spettacolare dei modi, si rivelerà l’assassinio di Hitler e Goebbels.
Un tripudio di antinazismo che nel 2009 fece scrosciare applausi liberatori nelle sale di mezzo mondo. Non fu soltanto un turbine di adrenalina stimolata e incanalata sapientemente da questo giovane maestro di cinema, ma sicuramente anche un mix di tanta repressione del dolore inconscio del pubblico misto a un senso di colpa, vergogna e compartecipazione per uno dei capitoli peggiori della storia.
Uccidere Hitler in celluloide fu un atto rivoluzionario, una vendetta virtuale che valse a Tarantino anche il migliore incasso tra i suoi film girati fino ad allora, con 313 milioni di dollari d’incasso nel mondo. La mazza da baseball, simbolo dello sport nazionale stelle e strisce utilizzata dall’Orso Ebreo per giustiziare i nazi, gli scalpi inferti come i nativi americani, le svastiche, fiero simbolo del regime, utilizzate come massima umiliazione marchiandole sulla fronte del nemico sono solo alcuni dei culturemi, dei segni distintivi, che
Tarantino trasforma in elementi narrativi.
Giocoso come un ragazzino ma determinato come un grande visionario, mette insieme questi e tanti altri semi presi dal passato per la sua deviazione verso la rivincita di Bastardi senza gloria: il trionfo del Bene sul Male.
C’era una volta… in Texas, quando Django frantumò le catene
A metà ottocento gli Stati Uniti erano più divisi che mai dallo schiavismo. Da una parte i bianchi, dall’altra i negri. In Django Unchained Tarantino abbandona ogni leggerezza nel trattare l’argomento. Ci mostra le radici più infime del razzismo moderno e plasma sadicamente la visione dello spettatore intorno all’avventura di questo schiavo sfortunato a vedersi rapire la moglie, ma successivamente favorito dalla sorte nell’incontrare un bounty killer che lo istruirà, liberandolo e insegnandogli il mestiere del cacciatore di taglie.
Curiosamente fluido il passaggio dei ruoli per il temibile colonnello Landa dei Bastardi, il magnetico Premio Oscar Christoph Waltz, per l’occasione diventato il bianco buono che si allea col nero Jamie Foxx. Altro attore che aveva incassato l’Oscar, ma per l’interpretazione di Ray Charles. Come villain fa la sua prima comparizione tarantiniana invece un certo Leonardo DiCaprio. Unto, bavoso, con i denti marci, il suo schiavista rappresenta l’anima bianca più sudicia e razzista d’America. L’autore però vuole essere ancora più penetrante nella coscienza dello spettatore, di qualsiasi colore sia, perché al cattivissimo personaggio di DiCaprio affianca un vecchio schiavo nero e servile interpretato da Samuel L. Jackson. Figura luciferina e consigliera, rappresenta il collaborazionismo doppiogiochista, quella piccola parte realmente più sottomessa e corrotta della comunità afroamericana.
Ovviamente il regista sbaraglia i cattivi e lascia che il suo Django conquisti la libertà per sé e la sua famiglia in un’epifania di vendetta finale stracolma di testosterone. Siamo al secondo passo verso la rivincita sulla Storia. La spallata al pregiudizio razziale è forte, ma agisce più sottotraccia, forse, che attraverso scene grondanti sangue e adrenalina da giustiziere. Se fosse davvero accaduta un evento simile, forse il razzismo avrebbe meno peso sul mondo attuale? Chissà.
C’era una volta… a Hollywood, la pace di immaginare tutti vivi
Passiamo all’ultima pellicola in senso cronologico d’uscita. C’era una volta a… Hollywood compone la coppia inedita DiCaprio – Pitt, pescata esattamente dai due film precedenti. Il primo attore impersona Rick Dalton, star televisiva degli anni Cinquanta che durante il proprio declino artistico, nel 1969 tenta con difficoltà il grande salto al cinema. Al suo fianco il fedele amico e stuntman Cliff Booth, uno sciupafemmine solitario con i pugni troppo duri pure per la più grande star di arti marziali dell’epoca. Ironia e citazioni rovesciate sul pubblico a secchiate, il film segue parallelamente la vicenda dei vicini di casa di Dalton: il giovane regista europeo Roman Polanski e sua moglie Sharon Tate, interpretata da una dolcissima Margot Robbie. Proprio nella loro Cielo Drive si sarebbe consumata la carneficina messa in atto dai seguaci di Charles Manson.
Ma il pluriomicidio Tate è la storia vera e sconfortante di come agì un gruppo di yippie deviati da un senso di totale anarchia ritorta contro la vita stessa della società reale. (SPOILER ALERT) Quentin Tarantino tesse un finale dove sono le star della celluloide ad avere la meglio sul branco di pazzi venuti a vendicarsi delle bravate di Cliff. Tanto che il film si chiude con la toccante dolcezza di una ragazza incinta che apre il cancello all’attore vicino di casa che seguiva sempre da piccola nel serial Bounty Law. Con questa semplicità il regista incornicia il momento più tenero della sua intera filmografia.
C’era una volta a… Hollywood: la storia vera di Charles Manson
Per tutta la sceneggiatura fa scagliare i suoi personaggi buoni contro le realtà yippie, non risparmiando neanche loro da tendenze moraliste e reazionarie. Imposta così un pregiudizio forte e incrociato, ma necessario alla svolta narrativa del finale. Ci dice senza mezzi termini che gli estremismi ideologici portano al peggio, come ha fatto del resto la Storia, attraverso i tremendi fatti accaduti. Capovolgerli spostando la colluttazione nella villa accanto a quella di Polanski costituisce il lampo geniale per costruire una morale postuma. Un what if che mena le mani vendicandosi tra lame e ferite copiose sì, ma si scioglie in un invito tra amici, con una musica di sottofondo di peace and love. Anche Polanski, avendo saputo dei dettagli sul progetto durante la lavorazione ha lasciato fare, accogliendo l’omaggio, il pensiero gentile di quel diavolo di Mr. Brown.