Christopher Nolan compie 50 anni: le parole chiave del suo cinema
Oltre 20 anni di Christopher Nolan al cinema e 10 pellicole per una delle filmografie più trasversali di uno dei cineasti più influenti del XXI secolo.
Christopher Nolan è uno dei cineasti più importanti del XXI secolo e probabilmente il più influente nell’immaginario popolare moderno.
Autore dallo stile inconfondibile, in grado di incassare nel tempo più di 4,5 miliardi di dollari, il regista inglese è stato pioniere del nuovo corso dei cinecomics, il cui successo è stato da molti sfruttato, ma da nessuno mai realmente raccolto (Snyder ci scuserà), nonché creatore di un linguaggio in grado di avvicinare le tematiche di nicchia del cinema d’autore al blockbuster. Maestro nel manipolare generi differenti e piegarli alla propria personale idea di cinema, in cui ogni aspetto del lavoro è al servizio della sua ossessione: unire stile visivo ed elemento narrativo.
La filmografia nolaniana è, checché se ne dica, coerente e organica. Le sue basi sono i topos filosofici e metafisici, le sue muse sono i rivoluzionari, il suo interesse è l’esplorazione della moralità umana, le sue armi sono la purezza visiva, gli effetti speciali artigianali e la tecnologia IMAX, i suoi compagni di avventure sono il montaggio e gli innovativi paesaggi sonori. La sua vocazione è dominare la dimensione del tempo.
Parlare della sua poetica è impresa assai ardua, ma, fin dal 1998, anno di uscita del “piccolo” Following (forse anche fin da Doodlebug), sono rintracciabili dei classici fils rouges, che legano tutti quanti i suoi film.
In attesa di Tenet, la sua nuova spy story dopo Inception e nel nome di 007 – Licenza di uccidere, il titolo preferito di Christopher Nolan, da buon inglese.
Christopher Nolan: le 5 parole chiave del suo cinema
Amore
Non andartene docile in quella buona notte. Infuriati, infuriati, contro il morire della luce.
Nello scrivere i suoi personaggi Christopher Nolan ha un approccio ambivalente, improntato su una forte volontà di creare un’empatia tra loro e lo spettatore, ma sempre riservandosi la possibilità di strumentalizzarne destini e, soprattutto, sentimenti in nome della classica “visione più ampia” o, per meglio dire, la funzione narrativa della pellicola. Funzione estremizzata in Inception e in The Prestige, quando i protagonisti acquisiscono una valenza metanarrativa, diventando reincarnazioni del regista stesso e parte di un trattato espositivo sul suo cinema.
Tra i sentimenti più affrontati e che più sono stati espressi da questa duplice lingua c’è quello dell’amore. Onnipresente nella filmografia nolaniana nelle sue varie declinazioni: l’amore per una donna di Cobb, Bane e Angier, l’amore per la patria in Dunkirk, l’amore per la verità di Lenny, l’amore per la giustizia di Bruce Wayne e del detective Dormer e via dicendo.
Questo perché questo particolare sentimento, ancora più della vendetta, è per Christopher Nolan la principale motivazione che mette i suoi protagonisti in movimento, esattamente la dimensione in cui a lui interessa ritrarli, perché solo così diventano quelle singolarità in grado di compiere atti rivoluzionari, “Non è tanto chi sei, quanto quello che fai che ti qualifica“, no?
Su questa funzione narrativa si crea il ponte che lo porta alla sua versione più oggettiva teorizzata in Interstellar. È nel film di Nolan più kubrickiano che l’amore come semplice motivazione che lega Cooper e Murphy si trasforma in una forza della fisica, quindi logica, calcolabile, spogliata di ogni tipo di soggettiva umanità. Solo collocato in questa nuova dimensione esso diventa realtà tangibile e affidabile. Rotta in grado di trascendere tempo e spazio e quindi unica via per continuare a muoversi.
Gravità
La gravità è come la follia: basta solo una piccola spinta.
Il senso diegetico della verticalità ha sempre affascinato Christopher Nolan, tanto da condizionare lo sviluppo delle strutture di tutti i suoi film. Esso consente l’inserimento della gravità, simbolo di quella forza che impedisce all’uomo di elevarsi al di sopra dei suoi limiti, ma che anzi tende a schiacciarlo, impedendogli di fuggire dalla sua mediocrità. Un tema fondante del cinema nolaniano, spesso proposto tramite un’evoluzione di forme: la caduta come capolinea di tanti dei personaggi dei suoi film; diventata sacrificio per permettere al miracolo del Prestigio di verificarsi, rigorosamente in alto, in modo che tutto il pubblico debba alzare la testa per ammirarlo. Fino al ribaltamento in Inception tramite il concetto del “calcio”: la caduta che fa risalire.
Nella vittoria della sfida contro la gravità Nolan vede il concetto di resurrezione, che è quello su cui si fonda tutta la Trilogia del Cavaliere Oscuro.
Perché cadiamo, Bruce?
In Batman Begins il giovane Wayne deve scalare una montagna per raggiungere la Setta delle Ombre, un’altezza isolata e al di sopra del resto del mondo, simile a quella da cui precipita il Joker alla fine de Il Cavaliere Oscuro, fermato solo da Batman dal toccare il metaforico fondo dal quale il Pipistrello dovrà risorgere per spodestare Bane dal suo trono. L’elaborazione stessa del lutto per la morte dei genitori di Bruce passa attraverso la caduta di Batman, prima di accettare di tornare alla vita. Una parabola affascinante, ma in cui non troviamo lo strumento predittivo della successiva tappa del rapporto tra la gravità e il regista, inquadrabile se vogliamo nella trovata dello sky hook, in cui le leggi della fisica vengono piegate grazie alla tecnologia.
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Ciò ci conduce a Interstellar, una storia in cui l’uomo trova, grazie alla scienza, anche se concettualmente connessa alla sua natura, le risorse per elaborare un teorema in grado di sconfiggere la gravità, in quel contesto suo nemico naturale, riuscendo così a salvare la sua razza.
Tutti i conflitti però possono dirsi compiuti solo quando sono superati. Così ci insegna Dunkirk, il film verticale principe di Christopher Nolan, in cui i vari piani di altezza non vengono più visti come nemico da battere o un ostacolo da affrontare, bensì come teatri funzionali allo sviluppo della narrazione. Acqua, terra e aria, non più in contrasto, ma in armonia.
Doppio
Ogni numero di magia è composto da 3 parti o atti.
A testimonianza ulteriore della centralità della trilogia de Il Cavaliere Oscuro nello sviluppo delle tematiche del cinema di Christopher Nolan, c’è una dichiarazione del regista stesso in cui esprime come il concetto di doppio abbia trovato una prima grande maturazione nel rapporto tra il villain di turno e Batman. Questo perché ognuno di loro di volta in volta modifica il destino del protagonista, acquisendo man mano un’indipendenza sempre maggiore fino a raggiungere un’autosufficienza con Due Facce. Ancora più del Joker, che “si limita” a costringe le persone a guardare in faccia l’ipocrisia dei loro valori etici, egli è la parodia della massima espressione nolaniana dell’ambigua bipolarità della natura umana in cui bene e male sono solo illusioni. Evenienze causate dal tempo, la cui unica esistenza possibile è quella comune: convivere in una terza parte da loro stessa generata. Uno spazio fluido, in cui è lo spettatore a decidere la propria posizione, teatro della moralità umana.
Un discorso, anche questo, che nasce con Following, per proseguire in Memento, in cui Lenny trova la dimensione per vivere nel legame con i vari John G., e portato ad una prima maturazione in Insomnia, il primo film in cui è tangibile questo nuovo terreno comune ed esclusivo generato dai suoi protagonisti. Suggestivo anche l’inserimento del doppio in Inception, sulla cui struttura si gioca l’importanza metanarrativa del film e a cui viene data addirittura una connotazione fisica: il terzo livello del sogno. Tre livelli che rispecchiano anche le tre fasce di età in cui vediamo Murphy, uno degli elementi del doppio in Interstellar.
Ma la massima maturazione arriva nella funzione che assume in The Prestige, dove si intreccia con la struttura del cinema nolaniano. Cobb e Angier diventano le due facce di Christopher Nolan, impegnate in un lotta costante, con lo scopo di elevarsi sull’altro e superare l’atto della Svolta, ma è proprio nel loro scontrarsi, che riescono a divenire al Prestigio. Il luogo magico dove lo spettatore assiste a qualcosa di nuovo, la terza dimensione perfetta, il primo grigio assoluto, nato da mille contaminazioni. Che è il cinema stesso di Nolan.
Sogno
I sogni sembrano reali finché ci siamo dentro, non ti pare? Solo quando ci svegliamo ci rendiamo conto che c’era qualcosa di strano.
C’è sempre stata una stretta connessione tra la dimensione onirica e quella cinematografica, fortemente legata ad una comune diversa percezione dello scorrere del tempo rispetto alla realtà. Una lezione suggestiva, fonte di interesse di tanti dei più grandi cineasti della storia del cinema. Fellini ce l’ha insegnato con l’inizio di 8 e mezzo, dimostrandoci come i primi minuti di una pellicola siano paragonabili all’immersione in un sogno, in cui il principio del in media res regna sovrano.
Christopher Nolan ha ripreso molto di questa concezione, ottenendo un effetto estraniante molto forte nelle scene in bianco e nero in Memento, ambientate in una camera di motel apparentemente in un tempo imprecisato, e in Insomnia, ottenendo una distorsione simile a quella onirica paradossalmente grazie all’assenza del sonno.
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Curiosamente è proprio in Inception, la sua pellicola sul sogno per eccellenza, che questa forte connessione si perde. La dimensione onirica della pellicola infatti è solo apparentemente svincolata dalla realtà, perché è in sostanza regolata da logiche precise, quasi matematiche. Esso prende la forma di un sogno lucido con il compito di rappresentare il mondo che viviamo da svegli, ma incapace di farlo perché legato ad esso della memoria, distorta dal tempo. Un film sui sogni che ci dice che, alla fine, ci si deve svegliare, come ci ricordano le note di No, Je ne regrette rien, perché, alla fine, la realtà è l’unica cosa che conta.
Tempo
Non ho paura della morte. Sono un vecchio fisico. Ho paura del tempo.
Quando il ventottenne Christopher Nolan girò Following svelò senza dubbio qual era la tematica sulla quale si sarebbe fondata tutta la sua carriera: il tempo è soggettivo ed è il suo essere soggettivo a creare la realtà. La capacità di padroneggiarlo permette una libertà assoluta, svincolata dalle regole terrene, al riparo dalle miserie dei nostri destini e in grado addirittura di ingannare la morte.
Nella costruzione delle sue storie il regista inglese sfrutta il concetto di relatività, creando i suoi claustrofobici labirinti in cui rinchiudere i personaggi e lo spettatore.
Quella tra il tempo e Nolan è una relazione che ha vissuto di esperimenti costanti, spinti dall’ossessiva voglia di scoprire ogni possibile manipolazione: è disallineato in The Prestige, come in Following e in Batman Begins, riavvolto e resettato (ogni 15 minuti) in Memento, dilatato in Insomnia e scaglionato in Inception.
Non ci arrenderemo mai.
In Interstellar è addirittura moltiplicato ed elevato a quarta dimensione fisica, in modo da permettergli di acquisire una valenza fondamentale per lo sviluppo stesso della storia e non solo per il modo in cui è raccontata.
Ma è solo in Dunkirk, che il tempo riesce a trovare il modo perfetto di accordarsi alla struttura narrativa della pellicola. Le 3 dimensioni in cui prende corpo la storia viaggiano secondo velocità e linee temporali differenti eppure sono perfettamente organizzate secondo un’armonia che gli permetta di convergere tutte in un punto esatto. Una struttura che tiene conto anche dei tempi delle vicende reali narrate dalla storia con la S maiuscola, oltre ai vari eventi di finzione che vediamo sulla scena. Causalità e tempo dunque si intrecciano, creando finalmente quel meccanismo che Christopher Nolan da sempre insegue.
Un orologio asincrono e acasuale perfettamente sincronizzato per il più grande aspirante orologiaio del cinema contemporaneo.