Cinematographe.it presenta Copia originale di Marielle Heller

Una riflessione su Copia originale di Marielle Heller, per comprendere lo stato del cinema americano e la natura di un film che si interroga sull'eterna dicotomia fra realtà e finzione.

Spesso i titoli italiani sviliscono il senso di un’opera, ignorando il messaggio primario di un autore o diventando richiami commerciali che ingannano lo spettatore. L’esempio più lampante, quello rimasto in un certo senso impresso nella memoria collettiva per la sua grossolana manipolazione, è senza dubbio Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Michel Gondry, 2004), divenuto in italiano Se mi lasci ti cancello. Dai versi evocativi del poeta Alexander Pope si passò ad un richiamo che agganciasse la platea dei teenager, con il rischio di un fraintendimento universale che allontanasse qualunque tipologia di target.

Copia originale svolge al meglio, invece, il suo compito: la denominazione ossimorica – una copia non può essere un originale, e viceversa – rende efficacemente l’idea di ciò a cui assistiamo sullo schermo: si parla di una scrittrice di talento, Lee Israel, che in un periodo particolarmente infelice della sua vita (è una biografa, i suoi lavori sono finiti in passato nella lista dei best sellers del New York Times; ma il suo ultimo testo sulla donna d’affari Estée Lauder è stato un fiasco totale) ricorre alla falsificazione delle lettere di grandi attori e attrici del passato. Missive che appaiono vergate di proprio pugno, ingiallite ad hoc per simulare lo scorrere dei decenni e in cui i soggetti si lasciano spesso andare a bizzarre confessioni personali totalmente inedite.

Lee Israel (Melissa McCarthy in Copia originale) potrete mai perdonarmi?

È il rovescio dell’american dream, l’altra faccia di una stessa medaglia che normalmente viene occultata in quanto sconveniente: a Lee Israel – personaggio scorbutico, scostante, costantemente male in arnese – è negata una seconda opportunità. È una fallita, punto, e per lei non è prevista redenzione. Ma gli emarginati, come ci insegna una grossa fetta del cinema statunitense, possono salvare il mondo; la vicenda di Israel, tuttavia, disattende anche questa possibilità, mostrandoci come in verità l’obiettivo principale sia anzitutto la salvaguardia di se stessa e della propria autodeterminazione. A muso duro, contro il resto degli esseri umani e non di certo al loro fianco.

Tratta dal libro di memorie Can You Ever Forgive Me?, la storia di Lee Israel e del sodale Jack Hock sembra sulla carta totalmente inadatta a diventare un film. Come empatizzare con un carattere così respingente, così solitario e misantropico? Come rendere appetibile un’ambientazione fatta di biblioteche, cupe stanze d’appartamento e bar solitari in cui affogare la propria disperazione esistenziale?

Il miracolo avviene grazie ad un insospettabile equilibrio delle parti: se la sceneggiatura di Nicole Holofcener (Non dico altro, 2013) e di Jeff Whitty riesce a rendere brillante, toccante e a tratti anche divertente la monotonia in cui in effetti Israel era quotidianamente immersa, il resto del merito va senza dubbio alle indovinatissime scelte di cast. Melissa McCarthy e Richard E. Grant ricalcano alla perfezione i connotati di due protagonisti che si riconoscono, si rispettano e si apprezzano nel nome dell’assenza di giudizio reciproco e di una sorta di orgoglio che li redime e li eleva al di sopra delle umane sciagure. I dialoghi appuntiti e altamente credibili hanno sì portato alla candidatura come Miglior Sceneggiatura Non Originale, ma quel premio poi l’avrebbero anche forse meritato (a scapito di BlacKkKlansman di Spike Lee, i cui pregi principali non risiedono probabilmente nello script quanto nella qualità della colonna sonora e del montaggio).

In piena crisi di originalità

Copia Originale Cienmatographe.itMa l’apprezzamento di Copia originale è destinato a crescere col passare del tempo: lo dimostra l’incasso americano, che ha segnato solo 150 mila dollari nel suo primo weekend di distribuzione (in soli 5 cinema!), per poi arrivare a oltre 5 milioni al quinto fine settimana (e ad un’esposizione di oltre 500 sale). Ha funzionato, in poche parole, il passaparola, che ha fatto sì che venisse brillantemente superata la diffidenza iniziale. Interessante anche il risconto del box office italiano: la pellicola di Marielle Heller (uscita il 21 febbraio) rientra ancora nella nostra top ten, nonostante la lunghissima tenitura di Green Book, di Il corriere – The Mule e della messe di film italiani che in questo periodo ha invaso i cinema (10 giorni senza mamma e Modalità aereo su tutti).

D’altro canto, Copia originale si inserisce a pieno diritto nelle tendenze – e anche nelle problematiche – cinematografiche di questi anni: la crisi di (ehm) originalità dell’industria porta alla produzione in serie di sequel/prequel/reboot o al resoconto romanzato di fatti realmente accaduti. La rielaborazione di eventi di cronaca può diventare metafora e veicolo di un messaggio; accade con i sopraccitati Green Book e Il corriere – The Mule, e ovviamente anche con Copia originale, che si fa parabola della fragilità della scrittura ma anche percorso di riabilitazione di chi, possedendo enormi qualità, le sfrutta nel peggiore dei modi.

Da questo punto di vista il finale può anche forse deludere (perché una piccola parte di noi sogna sotto sotto che la nostra anti-eroina possa anche farla franca, un po’ come per il Frank Abagnale di Prova a prendermi), ma non potrebbe essere stato altrimenti: per quanto della spigolosa Israel e del viveur Hock si sappia davvero poco o nulla, la sentenza con cui i due hanno dovuto pagare pegno al tribunale americano è cosa risaputa e non trascurabile. Ma è forse proprio attraverso la resa incondizionata che la loro tragicomica (dis)avventura assume un significato ancora più rotondo e coeso.

Copia originale: vero, come la finzione

Copia Originale Cienmatographe.itResta infine una piccola considerazione sulla natura stessa del film, inteso come opera d’arte cinematografica che riflette e in qualche modo falsifica la realtà. Il cinema riproduce pedissequamente, rielabora, ridisegna l’universo. E lo fa emulando situazioni che, in un modo o nell’altro, appartengono – o potrebbero appartenere – al nostro quotidiano. Tutto nel medium cinema – così come nella fotografia – è una copia, un’emulazione. Anche nella fantascienza e nell’horror, ad esempio, che fanno dell’immedesimazione la propria colonna portante e che dunque si basano su una potenziale verosimiglianza. E anche nel documentario, che per il semplice fatto di frapporre fra se stesso e l’occhio di chi guarda una cinepresa diventa una replica e una contraffazione.

Copia originale, così, crea un consapevole cortocircuito intellettuale interrogandosi (e interrogandoci) sull’eterna dicotomia fra autenticità e invenzione, fra veridicità e immaginazione: per rappresentare una parte significativa della vita di Lee Israel, che creava ex novo documenti fasulli di artisti realmente esistiti, la pellicola di Heller diventa a sua volta una testimonianza falsa (in quanto riprodotta, finzionale) di un’esistenza vera, fattuale. Copia originale è una copia originale, un’immagine affascinante e intrigante del mondo che non corrisponde al mondo.

Copia originale: leggi qui la storia vera di Lee Israel e delle sue lettere

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