Cinematographe.it presenta Il signor diavolo di Pupi Avati
Cinematographe presenta Il signor diavolo di Pupi Avati, 39esima pellicola del regista bolognese tratta dal romanzo omonimo, che segna il suo ritorno al cinema horror.
Avete presente quella citazione sull’amore di Amici mai di Antonello Venditti? Quella strausata e ormai superinflazionata che sta bene su tutto? Ecco, dimenticatela. Con il suo Il signor diavolo Pupi Avati non torna al cinema horror come innamorato reticente del genere o come amante romantico e melanconico, la sua è una scelta consapevole, una scelta autoriale, artistica e, in larga parte, provocatoria. Il lungometraggio ha infatti nel suo cuore non tanto il tema orrorifico, quanto la rievocazione di una stagione passata, legata all’infanzia del regista, alla sua formazione culturale, alla sua istruzione casalinga, alle sue radici autoriali e ai suoi punti di riferimento artistici e creativi.
La pellicola si basa sull’omonimo romanzo del 2018 nato dalla penna dello stesso Pupi Avati, la sua seconda fatica cartacea dopo Il ragazzo in soffitta del 2015, ed è stato scritto insieme al figlio Tommaso e al fratello Antonio. Il signor diavolo, tra l’altro, non è un punto di arrivo, ma di partenza per Avati, dato che, stando alle sue recenti dichiarazioni, esso sarà il primo capitolo di una saga personale horror sul Male, ambientata negli stessi luoghi.
Il signor diavolo: la lotta al presente
Alla sua personalissima visione della produzione filmica nostrana, composta per la maggior parte da commedie e lungometraggi dediti al racconto del presente, Pupi Avati risponde con una pellicola fuori dal coro e affida il suo messaggio artistico e autoriale al genere che più ha amato e ama. Per di più con un cast di volti inediti, fuori da “soliti giri” (come li chiama lui) del cinema italiano.
L’anima provocatoria de Il signor diavolo sta nel raccontare nel 2019 una storia appartenente a un’età e a una realtà contadina passata e sorpassata e a una stagione quasi dimenticata della nostra Italia, qui capace di rivendicare a gran voce la sua dignità culturale e la sua importanza nella vita artistica del nostro Paese.
Essa torna a essere quell’immaginario fonte di storie, personaggi, ambienti, insegnamenti e spunti che tanto hanno guidato una grande fetta del cinema di genere italiano. La critica feroce e mai celata del regista bolognese nei confronti dei lavori dei suoi colleghi contemporanei si percepisce nelle scene del suo film, nel modo di recitare dei suoi attori, nelle battute dei suoi personaggi e nei colori dei suoi paesaggi.
Un giovane funzionario di belle speranze, figlio della città e della politica italiana dell’epoca (siamo nel 1952), viene inviato dalla capitale a un paesello di contadini vicino Venezia, un mondo a parte, con le sue logiche, le sue credenze, le sue superstizioni e i suoi piccoli segreti che non devono essere rivelati né possono essere capiti da qualsivoglia “cittadino forestiero”. Ogni singola parte di questo microuniverso è meritevole di rispetto, ognuna è meritevole del titolo di “signore”, compreso il suo male, il signor diavolo, appunto.
Lo scellerato tentativo del malcapitato ragazzo di nascondere questa realtà non potrà quindi che fallire, portandolo a essere lui stesso inghiottito e sepolto. Ma la sua figura non è importante tanto per la sua funzione nella trama del film, quanto per quella metanarrativa come terreno di connessione tra l’uomo moderno del XXI secolo che guarda lo schermo e quell’ambiente ormai a lui estraneo, ma che invece non deve essere dimenticato, perché, lui sì, fonte di storie e spunti culturali in grado ancora di avere una voce in capitolo.
Se vogliamo, un film che tratta questo tipo di cultura contadina non poteva che essere una scelta naturale per Pupi Avati, essendo le radici non solo del suo cinema, ma anche della sua infanzia, rintracciabili proprio in tale contesto.
Ecco quindi la decisione di affidare il suo messaggio ad horror gotico, oscuro, superstizioso, allegorico e addirittura folkloristico. Un “non-genere” italiano, sorpassato e dimenticato al grande pubblico, il quale al massimo può arrivare ad apprezzare Suspiria di Guadagnino, elegante e moderno, ma che generalmente si ferma ben prima.
Un tipo di cinema che si identifica perfettamente con la storia che racconta e nel modo in cui lo fa, il cui solo nemico è il presente.
Il distinto signor diavolo
E dunque chi è il signor diavolo?
Il governo, che, noncurante della sofferenza di una madre, si preoccupa solo di insabbiare il caso della morte del figlio? La chiesa, schiava di riti antichi e credenze arcaiche capaci di distruggere la vita delle persone? Magari Emilio, il figlio del maiale, l’assassino della sorella e dalle fattezze mostruose? Oppure invece è proprio il timido Carlo, che voleva solo indietro il suo migliore amico?
Il male è parte di ogni cosa così come lo è il bene, l’inevitabile ed eterno gioco delle parti che si rincorrono e si animano l’una con l’altra, l’eterna lotta e l’eterno amore. Probabilmente il maestro Avati non si preoccupa di identificare il male, quanto di raccontarlo nella sua presenza nel mondo, nelle relazioni tra persone e tra istituzioni e tra le une e le altre. Persino nei sentimenti più belli e celebrati come l’amore, si può trovare il diavolo.
Il Male siete voi e siamo noi, ma, probabilmente, lo è soprattutto Pupi Avati.
Il quesito principale a cui risponde è però quello riguardante la dignità del Male. Essendo parte di tutte le cose, così come esse devono essere rispettate, così a maggior ragione deve essere rispettato lui. Il signor diavolo di Pupi Avati è tale perché riconoscibile e perché deve essere riconosciuto. Una necessità fondamentale, tipica della realtà contadina del film, per smascherare il suo inganno. Il diavolo qui non è più quell’entità che si preoccupa di convincere gli altri che non esiste, ma diventa una parte necessaria del bagaglio culturale e della visione della vita dei personaggi in scena.
Il signor diavolo: Pupi Avati, la faccia bonaria e il cuore di tenebra
Il maestro Pupi Avati è a un passo dalle quaranta pellicole in una carriera costellata da una grande trasversalità di genere e da un successo più o meno costante negli anni. Il primo film fu Balsamus, il figlio di Satana (indovinate il genere della pellicola), era il 1968 e il signor Avati realizzava il suo sogno dopo l’inferno dei quattro anni da rappresentante della Findus surgelati. Ora, 51 anni dopo, il regista arriva in sala con Il signor diavolo, un film che dialoga, a quarant’anni di distanza, con La casa dalle finestre che ridono, riprendendone modalità narrative (l’indagine esterna), ambienti (il tessuto provinciale e contadino), atmosfere, sapori e colori. Ma anche le stesse location (le zone in cui si sono svolte le riprese sono le stesse per entrambi i film) e, in buona parte, gli stessi volti.
Questa può essere un’arma a doppio taglio per un autore che non riesce a progredire con il suo pensiero, ma che è capace di dialogare con il contemporaneo solo andando indietro, ricercando il suo nuovo cinema nell’autocitazione. D’altra parte però Il signor diavolo propone comunque un linguaggio capace ancora di attirare il pubblico, attraente, ricercato ed elegante.
Quel retrogusto orrorifico che ha caratterizzato i primi lavori di Pupi Avati fa ancora gola, d’altronde non ha perso nulla del suo smalto. Anzi, per certi versi risulta addirittura più attento, intraprendente e ricercato. Il rapporto tra Avati e il mondo oscuro del cinema è invecchiato bene, capace ancora di celare un inquietante incubo a occhi aperti dietro una faccia paffuta e una risata bonaria da nonno affettuoso.
A testimoniare il successo di questo connubio ancora oggi c’è la critica, che ha accolto unanimemente in modo molto positivo la pellicola, e c’è anche la risposta di pubblico, la cui affluenza nel weekend di esordio ha portato il film al terzo posto in classifica dopo due mattatori del botteghino come Il re leone e Fast & Furious – Hobbs & Shaw.