Cinematographe.it presenta Judy di Rupert Goold
Cinematographe.it presenta Judy di Rupert Goold, il biopic con Renée Zellweger nei panni dell'attrice e cantante Judy Garland,
Judy Garland è un’anima bella e sensibile, un’artista che sapeva cantare, ballare e recitare, è stata una vera star, eppure la sua è stata un’esistenza complicata: è diventata famosissima da adolescente e poi ha in virtù di questo ha dovuto “combattere” per mantenere un profilo alto. Tra abuso di farmaci, distruzione interiore e incontri sbagliati Judy muore prematuramente a soli 47 anni. Un’attrice che è stata il simbolo dell’epoca d’oro di Hollywood deve essere raccontata, fa questo il biopic Judy, diretto da Rupert Goold con protagonista Renée Zellweger – che per questa performance si è aggiudicata il Golden Globe come Miglior attrice in un film drammatico. Judy rientra all’interno dei film biografici che mettono al centro le esistenze di grandi personaggi dell’arte, della cultura, della storia e sviscera un periodo specifico della vita dell’attrice.
Come si inserisce Judy tra gli altri biopic
Dopo Bohemian Rhapsody e Rocketman Judy racconta una donna abitata dall’ambivalenza: da una parte manifesta il suo straordinario talento, sul palco ha una presenza scenica unica, lei è musica, lei, anche lontano da casa, è la Hollywood più “bella” e “pura”, calcando i palchi con il suo passo leggero e la sua voce intensa e duttile, dall’altra, nasconde un cuore spezzato che vuole essere ricostruito, con amori e scelte sbagliate. La sceneggiatura del film si muove fra 1939, anno d’uscita di Il mago di Oz e il 1968 (qualche mese prima della morte di Judy Garland) e cerca di spiegare in questo modo, nel rapporto tra presente e passato, tra l’età adulto e la fanciullezza, le fragilità di un’anima sensibile che ha sofferto anche a causa del successo avuto. Proprio come il film su Freddy Mercury e quello su Elton John anche qui si cerca di comprendere una personalità importante, in questo caso però il lavoro è ancora più profondo e intimo – grazie anche all’ispirazione data dal dramma teatrale di Peter Quilter, End of the Rainbow. Siamo proprio alla fine di quell’arcobaleno che prende origine da quei diciassette anni durante i quali Judy era sul set di Il mago di Oz per arrivare, trent’anni dopo, nel bel mezzo dei suoi ultimi concerti londinesi – intrapresi per guadagnare quei soldi che le avrebbero permesso di non perdere l’affidamento dei due figli piccoli -, e della crisi.
Judy: una donna in cui si specchiano molte altre divine
Come Maria Callas, Edith Piaf e molte altre dive dell’arte, della musica e della cultura, anche Judy Garland ha una sensibilità che, da una parte le permette di essere l’artista che è, ma dall’altra la distrugge, facendola sentire inadeguata e imperfetta. Deve rinunciare a qualcosa, a se stessa, alla sua fanciullezza, alla sua genuinità – a favore della costruzione e della legge hollywoodiana – come spesso capita alle donne, ancora di più a quelle di successo e a quelle che hanno vissuto durante l’età dell’oro di Hollywood.
Antidepressivi e sonniferi e non da ultimo una dieta ferrea hanno costruito l’immagine di una donna che non era mai “giusta” (per l’industria cinematografica) e in più di un momento all’interno del film emerge quanto la MGM abbia “invaso” la sua vita, il suo corpo per costruire quella ragazzina che sbatteva le sue scarpette rosse per ritornare a casa. La Garland canta, recita, eppure la distruggono per i suoi chili di troppo, minano la sua autostima tanto che per lei i barbiturici diventano compagni di vita e non riuscirà mai a liberarsi dalle dipendenze e vivere una vita “normale”.
Nel momento in cui vola a Londra lasciando i figli con il marito, Judy è ancora più sola, sola con la sua arte e le date al Talk in Town sono un ultimo, estremo tentativo di non arrendersi e di fare qualunque cosa per rilanciare la sua immagine, la sua carriera e poter ricostruire una vita con i suoi figli.
Judy è talmente tanto stonata da non sapere dove si trova, urla, schiamazzi, insulti, torna in camerino e piange e riecheggia un’immagine altrettanto violenta e dolorosa, quella reale invece di Amy Whinehouse che in preda all’alcol non si regge in piedi e crolla sul palco. Sembra un volo pindarico ma non lo perché si tratta, in entrambi i casi, di due donne di un eccezionale talento che non riescono a sostenere la crudeltà di un sistema e di un’esistenza.
Judy: tutto ruota intorno all’interpretazione della Zellweger
Muore da sola nella sua abitazione londinese, in base alle dichiarazioni del coroner a causa dell’abuso prolungato di barbiturici e Renée Zellweger riesce alla perfezione a essere Judy in ogni cellula del suo corpo. Come fanno le grandi attrici la Zellweger non interpreta, bensì è l’ex bambina prodigio che dopo una serata deludente si stende senza forze sul pavimento del bagno, che chiama i suoi figli solo per sentirne la voce. Con una mimesi difficile da trovare, è in grado di spezzare il cuore con un’interpretazione onesta e autentico, attenta ad ogni dettaglio, espressioni, ossessioni, perfino la sua postura, legata a gravissimi problemi fisici. Judy è il film della Zellweger, è lei che porta sulle spalle il peso del personaggio e della storia. Quella operata da Renée Zellweger è un’autentica trasfigurazione in Judy Garland: star bambina de Il mago di Oz (1939), destinata a una parabola tragica, ed una tra le storie più controverse e tristi negli annali di Hollywood.
Judy: Rupert Goold racconta la grandezza di Judy Garland… e Renée Zellweger [VIDEO]
Le sue performance è eccezionale, lo è nei gesti e nelle nervosi, nel corpo segnato e magrissimo – lei balla e canta, muovendosi come l’attrice di Hollywood – e nello “spirito”, riuscendo a dipingere una strada dei mattoni gialli al contrario, non verso casa ma verso la morte. nel corpo nell’espressione malinconica e nella voce. La Zellweger è particolarmente intensa nella solitudine del camerino, come sotto i riflettori del palco, facendo rivivere proprio quella famigerata follia distruttiva di una donna che va spegnendosi. Judy Garland ormai è l’attrice dimenticata dallo star system, è un “fenomeno da baraccone”, l’ex stella del cinema alcoolizzata, rissosa, capace di regalare performance strabilianti, ma anche cadere sul palco, dimenticare canzoni, o iniziare una guerra con il suo pubblico. Tutto questo risulta riuscito anche grazie a Rupert Goold che racconta una storia vera che non riguarda solo un’artista, una donna, ma anche un sistema, uno dei capitoli più sconvolgenti degli anni d’oro della MGM. Se altri, come Bret Easton Ellis e Martin Scorsese, hanno portato alla luce la brutalità delle major americane mettendo in evidenza quanto spesso fossero capaci di privare gli autori di ogni genere di libertà artistica, Goold fa un passo avanti e più nel profondo, la storia di Judy ricorda quanto lo star-system possa essere disumano, come possa fagocitare e distruggere non solo artisti bensì persone.
Judy: la forza del genere e cosa ha in più rispetto agli altri
In Judy non ci sono solo le tante altre storie di donne portate al cinema, Frida, Maria Callas, la Piaf di Le Vie en rose, non c’è solo il riverbero della vita della vera Judy Garland, ovviamente mediata dall’occhio, dalle parole, dalle scelte registiche di Goold, ma anche la tragica storia di sua figlia, Liza Minnelli che, come spesso capita nel dorato mondo hollywoodiano e nella triste genetica, replica la stessa parabola discendente materna.
Il biopic – che ha un taglio teatrale, chiaro soprattutto nella costruzione, è una scelta interessante, coerente e perfetta per usare al massimo il talento della Zellweger – ha dalla sua proprio questo rendere umano, vicino allo spettatore un personaggio e il regista è capace qui di farci sentire la muta disperazione della Garland, di entrare nelle personali e professionali di Judy, facendoci vedere come si sta sull’orlo del precipizio; e costruisce tutto questo con una parabola dignitosa e rispettosa. L’attrice non è un personaggio che si straccia le vesti, non cade mai nel bieco patetismo, tutto sta proprio nella parabola stessa, quella di una donna che sa cadere, rialzarsi e cadere di nuovo. Judy poteva essere facilmente un melodramma a tinte forti o dalla struttura convenzionale, invece è un biopic onesto, pietoso e contenuto. L’occhio di Rupert Goold è benevolo, empatico e compassionevole nel senso etimologico del termine.
Judy: un film intenso che riesce nel suo scopo
Il film – che incassa 24.362 euro – riesce con la forza propria del genere a cui appartiene a portare al cinema una storia intensa che deve essere raccontata per capire ancor di più il talento, il coraggio e la tenacia di una donna che ha tentato di combattere, nonostante tutto, ma poi è caduta.
Il senso di un film come questo è racchiuso nell’intensa e malinconica interpretazione di Over the Rainbowche può essere inteso come il testamento di una divina artista ma anche come una richiesta da parte di Judy di essere ricordata, piena di amore per ciò che fa ma anche di tutte le sue infinite fragilità.