Cinematographe.it presenta Tutti pazzi a Tel Aviv di Sameh Zoabi
Cinematographe presenta Tutti pazzi a Tel Aviv, di Sameh Zoabi, commedia di stampo satirico e metacinematografico sul conflitto arabo-palestinese.
Come può una nazione o un popolo scendere a patti con l’esistenza dell’altro e del diverso? Il dialogo di un popolo o un individuo con un’altra versione di sé, da essa scisso tramite barriere artificiali o naturali, può non essere sempre facile. Spesso non viene neppure contemplata la sola opzione della naturale accettazione di diversità e peculiarità, di culture e mentalità formatesi in luoghi e contesti differenti, e un processo che potrebbe aver durata minima (quello dell’accettazione, appunto) arriva a espandersi infinitamente, fino a coprire svariati anni, decenni, portando con sé violenza e meccanismi di sudditanza sanguinari, quando non guerre vere e proprie.
Il cinema è stato, in diversi casi, il mezzo perfetto per alimentare determinate politiche influenza le opinioni e le decisioni dei suoi spettatori, che compongono la maggior parte del popolo di un paese. Ma il cinema, si sa, può anche essere il tramite perfetto per rispondere alla paura e alla tragedia con una risata. Tutti pazzi a Tel Aviv, diretto da Sameh Zoabi, è un esempio calzante: presentato alla 75ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, rientra a pieno titolo nella categoria di opere che fanno della commedia una via d’uscita dal dramma di tutti i giorni.
Tutti pazzi a Tel Aviv conferma la predilezione di Sameh Zoabi per le tematiche socio-politiche
Se si dovesse dare una definizione sintetica ed esplicativa di Tutti pazzi a Tel Aviv si potrebbe dire che si tratti di un film sociale, e politico, travestito da commedia. O, meglio, una commedia che sbriglia progressivamente i suoi chiari intenti senza mai perdere lungo la strada il tocco umoristico che riveste la sua superficie. Questo a conferma della duttilità della commedia come genere prediletto per raccontare la serietà che, nella vita reale, l’analisi e l’osservazione delle epoche buie di una nazione richiederebbe, soprattutto da parte di chi è investito del potere di cambiare il corso degli eventi con sforzi relativamente ridotti, spesso di natura esclusivamente burocratica. Il terzo lungometraggio di Sameh Zoabi prosegue, nel più coerente dei modi, il discorso trattato dal regista con le opere precedenti, ossia quello imperniato sui problemi politici che incrinano un territorio fortemente disgiunto a causa dei conflitti interiori.
Sameh Zoabi nasce a Iksal, piccolo villaggio palestinese nei pressi di Nazaret, nel 1975. Proprio nella città di Tel Aviv consegue una doppia laurea in cinema e letteratura inglese nel 1998. Dopo una borsa di studio ottenuta nel 2005, presso la Columbia University, non passa molto tempo prima che decida di mettersi in gioco con un corto: nello stesso anno realizza Be Quiet, che ottiene riscontri positivi, diversi premi e un posto speciale a Cannes, dove vince un riconoscimento da parte della Cinéfondation. Questo lo porta a realizzare il suo primo lungometraggio, Man Without a Cellphone.
In entrambe le opere, nonostante le forme diverse di minutaggio, Zoabi si dimostra già interessato alla rappresentazione di piccoli nuclei famigliari piuttosto disinteressati alla politica e alle vicende di Stato, ma da esse intaccati in maniera pressante e piuttosto aggressiva, sebbene trasversale. Si è sempre all’interno di un contesto più grande, e a decidere delle nostre vite non siamo mai da soli. Una colpa che Zoabi indirizza verso l’esterno e non verso i suoi protagonisti, dalle ambizioni sempre relativamente ridotte e semplici: andare a scuola, giocare, avere una fidanzata o un fidanzato, mettere su famiglia, avere un lavoro diventano tutte imprese e non sempre realizzabili, a seconda delle circostanze, perché si è parte di un gioco politico enormemente più grande le cui mosse cambiano il corso delle esistenze di un’intera popolazione. Insomma, si è cittadini, studenti, padri e figli, ma si è anche involontariamente (e non giustamente) parte della fazione che è opposta a un’altra.
Tutti pazzi a Tel Aviv: il “film” nel film
Tutti pazzi a Tel Aviv racconta la storia di Salam (Kais Nashif), trentenne costretto ogni giorno ad attraversare il confine da Gerusalemme per recarsi sul posto di lavoro nella città palestinese di Ramallah, dove lavora come stagista sul set di una fiction prodotta da suo zio. Un militare di guardia al muro che separa Israele dai Territori occupati confessa al giovane di avere una moglie che adora e segue appassionatamente il “suo” show, sebbene sia un veicolo di propaganda anti-israeliana. L’idea della guardia di frontiera è quella di consigliare a Salam alcuni miglioramenti “tecnici” che gioverebbero alla trasmissione. Salam sfrutta l’incontro come incentivo per riuscire a entrare nel gruppo di sceneggiatori della trasmissione “Tel Aviv brucia“. Il militare Assi, con le sue idee, contribuisce all’assunzione di Salam come sceneggiatore, ma le prossime intuizioni dell’uomo non saranno altrettanto vincenti e il finale della trasmissione è un punto interrogativo.
Il metalinguaggio per raccontare la realtà
La carta vincente di Zoabi è quella di adottare formule e dinamiche proprie del meccanismo seriale e soap-operistico che contraddistingue prodotti come Tel Aviv brucia, la fiction su cui Salam sta mettendo le proprie mani. Zoabi dimostra di aver appieno compreso quanto, e come, il cinema e la televisione possano scalfire, rosicchiare muri di pregiudizi, convinzioni errate, nel migliore dei mondi possibili. Talvolta, gli stessi strumenti possono rivelarsi ideali per plasmare idee dal nulla e influire sulla capacità di analisi e osservazione dei fatti (in Wag the Dog, commedia nera di Barry Levinson, si arriva addirittura ad inventarli), manipolando l’opinione pubblica.
Il regista, dunque, sceglie di coinvolgere la stessa arte del cinema e della tv nel discorso. Situazioni comiche che sfiorano il ridicolo, una fotografia che alterna colori e luci ovattate da puntata televisiva a uno stile realistico in grado di riprodurre la concretezza di una triste quotidianità, sempre senza eccedere nel racconto impegnato, fanno di Tutti pazzi a Tel Aviv un film speciale che gioca in maniera piuttosto brillante con gli strumenti del metalinguaggio e con i riferimenti alla duplice realtà che viene, seppur superficialmente, raccontata. Il protagonista stesso, Salam, stretto nella morsa delle urgenze e degli svariati rischi che incombono nella sua professione, soprattutto dal momento in cui subentra l'”apporto creativo” di Assi, si fa immagine riflessa di una situazione analoga che riguarda un’intera popolazione, una situazione in scala maggiore, ugualmente sotto minaccia e in stato d’inferiorità.
Nelle sale italiane il film ha incassato 76,8 mila euro, non un buon risultato. Viene quasi spontaneo ipotizzare che la materia trattata non sia un tipo di materiale d’interesse per il grande pubblico, sempre meno avvezzo al cinema che utilizza il suo stesso linguaggio per riflettere tanto su sé stesso quanto su vicende di natura politica, e allo sguardo ironico sulla vita reale. Tutti pazzi a Tel Aviv rimarca, inoltre, su giochi e citazioni un po’ insistenti, ma l’esperimento resta interessante e giocato in maniera brillante: sebbene l’allegoria rimanga in stato embrionale (priva di uno sviluppo più profondo), Zoabi osserva i comportamenti paradossali, contraddittori e folli dei due gruppi messi a confronto tanto nella soap quanto nella realtà esistente al di fuori dello schermo, e che vengono smascherati quando portati sul piano della messa in scena di finzione.