Cold War: analisi del finale del film di Paweł Pawlikowski
La Guerra Fredda di Cold War si svolge fra dei contemporaneamente concreti e astratti est ed ovest. Una lotta fra opposti che - si sa - inevitabilmente si attraggono, ma non necessariamente possono coesistere.
Cold War (Zimna wojna) è un film del 2018 diretto da Paweł Pawlikowski, presentato in concorso al Festival di Cannes 2018. La pellicola, che ha ricevuto il plauso pressoché unanime della critica e ha conquistato 3 nomination agli Oscar 2019, rappresentando la Polonia come Miglior Film Straniero, racconta l’impossibile storia d’amore tra Wiktor e Zula, due opposti inesorabilmente destinati ad attrarsi l’un l’altra, situati su un piano incompatibile sia caratterialmente che socio-politicamente ma – nonostante ciò – invischiati in un’attrazione magnetica che li porterà a perdersi e ritrovarsi più volte nel corso di 15 lunghi anni, vissuti fra il duro e costrittivo socialismo della Polonia e le libere seduzioni occidentali di Parigi.
In questa raffinata pellicola, dalla messa in scena pressoché impeccabile, la Guerra Fredda assume un limpido significato simbolico, rendendo la storia fra i due amanti una pura metafora della situazione politica del tempo, in una sorta di estenuante e silente competizione in cui l’obiettivo tende progressivamente a sfumare all’orizzonte, schiacciato dall’inesorabilità dei dati di fatto.
Cold War è ambientato alla fine degli anni ’40, quando l’Europa dell’Est raccoglie i cocci della guerra nebulizzando musica folk nelle povere e desolate campagne della Polonia per mezzo di uno spettacolo itinerante in grado di fungere da sfogo catartico per gli animi dilaniati del Paese.
Il senso di conflitto che tali melodie ossessionanti trasmettono è palpabile, e si riverbera sui volti dei candidati che si presentano alle audizioni. In tutti tranne in quello di una giovane e sensuale donna di nome Zula (Joanna Kulig), decisamente determinata a ottenere il ruolo.
La canzone scelta per giocarsi la possibilità di essere ingaggiata è tratta da un film. Un “musical nostalgico”, spiega in tono poco convinto e convincente. Si dice che Zula abbia pugnalato a morte suo padre ma che la sua pena sia stata sospesa, un ulteriore elemento che contribuisce a incuriosire e affascinare Wiktor (Tomasz Kot), uno dei giudici dell’audizione, stregato a prima vista dalla ragazza.
Inizia così una relazione torbida tra la cantante e il pianista, tra una donna decisa a sfuggire alla povertà e un uomo che desidera abbandonare l’oppressione del proprio Paese.
Recensione del film di Pawel Pawlikowski
La ragazza viene ovviamente ingaggiata e successivamente, in occasione di un concerto del gruppo tenutosi a Berlino Est, nel 1952, Wiktor chiede a Zula di sfruttare l’occasione per attraversare la zona di occupazione sovietica e andare insieme verso Ovest, ma la ragazza non si presenta nel luogo prestabilito.
La scena di Cold War si sposta quindi a Parigi, nel 1954, dove Wiktor si esibisce col suo nuovo gruppo jazz. I due si incontrano, confessandosi di essere sentimentalmente impegnati, ma i palpabili sentimenti reciproci li portano a riavvicinarsi e sfuggirsi ancora.
Dopo varie vicissitudini, i due si incontrano nuovamente tre anni più tardi, nel 1957, con Zula che si reca a Parigi presentandosi presso gli studi di registrazione in cui lavora Wiktor, al quale spiega di essere entrata legalmente in Francia grazie al matrimonio con un italiano, definendo tale unione “non valida”, perché celebrata con rito civile.
Gli amanti si riavvicinano e Wiktor cerca di far sfondare Zula come cantante di musica polacca per il pubblico parigino ma la giovane donna fatica ad adattarsi al nuovo stile di vita e a un Paese che non le appartiene e non la rispecchia.
La cocente gelosia della ragazza contribuisce ulteriormente a far precipitare le tensioni, fino al punto in cui Zula decide di tornare in Polonia.
Wiktor vorrebbe raggiungerla, ma non è più cittadino polacco, e non potrebbe quindi tornare legalmente nel paese. Ma l’amore che lo lega alla sua donna è inesorabile, e l’uomo accetta le prime conseguenze del non riuscire a separarsi da Zula, subendo una condanna a quindici anni di carcere.
Arriviamo nel 1964 e Zula – in seguito alla promessa che avrebbe fatto il possibile per far uscire Wiktor dalla prigione – si è risposata, ha un figlio e lavora come cantante di intrattenimento nei locali. Finalmente, grazie alla posizione sociale raggiunta, può sfruttare gli agganci del marito con il ministero per far uscire di prigione il suo amore, che è ormai un uomo artisticamente finito, dopo l’amputazione delle ultime falangi di indici e medi subita in carcere.
Zula non si dà pace e chiede a Wiktor di portarla via dalla vita agiata ma infelice che è costretta a vivere, separata da lui. I due si rendono conto dei numerosi e irreparabili errori commessi negli ultimi 15 anni della loro vita e, decisi a non voler più sopportare di vivere lontani, si recano in una chiesa diroccata di campagna in cui pronunciano i voti nuziali, decretando finalmente – lontani dalla società che non permette loro di vivere insieme – il proprio amore eterno e suggellandolo con l’ingestione di una manciata di pillole e l’attesa serena, in mezzo alla natura, del loro liberatorio effetto mortale.
Cold War: un epilogo tragico quanto inevitabile
Cold War è la storia di un amore realmente impossibile, osteggiato da una realtà impietosa che decide di accanirsi su due esseri umani, fatti a pezzi dal destino.
Nel corso della relazione vulnerabile quanto solida fra queste anime libere, i due diventano ottusamente insensibili al peso dell’affiliazione nazionalistica o della rispettiva identità culturale, rimandando un epilogo inevitabile ma strenuamente ignorato fino alla fine.
I due amanti restano quindi invischiati nell’obiettivo impraticabile di vivere insieme, perdendo di vista se stessi e la propria condizione nel percorso, rimandando una resa dei conti che non ha fretta di manifestarsi, ma che non può evitare – infine – di presentarsi.
Cold War mostra come la vita privata possa essere travolta dallo tsunami di forze politiche più grandi, col risultato di risucchiare lo spettatore in un vortice emotivo che coinvolge più piani contemporaneamente.
Sfociando nell’unico finale possibile, il film di Pawel Pawlikoski riesce a comprimere un lunghissimo spazio temporale accelerandone il ritmo attraverso la successione di numerosissime azioni che tuttavia – come in un incubo – non mostrano nessuna possibilità di progressione e salvezza.
Il suicidio appare quindi l’unica via di fuga da una realtà che non vuole saperne di piegarsi ai desideri di una coppia che vorrebbe solo amarsi ma che non ha mai potuto, non può e non potrà mai farlo. Optando, allora, per un ultimo ed estremo atto di ribellione e libertà.