Cosa succede in Rai? La “resistenza televisiva” ai tempi dei social

Malgrado l’antifascismo sia il principio fondamentale su cui si impernia la Costituzione della nostra Repubblica – la dodicesima delle disposizioni transitorie e finali vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” –, puntualmente, alla vigilia del 25 aprile, c’è chi scambia una legge per un’opinione di fronte a cui è possibile storcere il naso e vantarsi di fare i bastian contrari. L’ultima polemica, a questo proposito, coinvolge la Rai. I fatti sono noti e discussi: sabato scorso, Antonio Scurati e Serena Bortone denunciano l’improvvisa cancellazione, dal programma della seconda, della lettura stabilita da tempo di un monologo in cui il primo, scrittore noto per aver vinto il Premio Strega nel 2019 con il romanzo M. Il figlio del secolo, dedicato a Benito Mussolini, concludeva osservando che “finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana”. 

Censura in Rai(?): la maldestra reazione della premier Meloni

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Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, non ci sta a passare per chi usa il proprio potere per imbavagliare; dirama, così, prontamente, una nota, corredata dal suddetto monologo ‘cancellato’, in cui scrive: “In un’Italia piena di problemi, anche oggi la sinistra sta montando un caso. Stavolta è per una presunta censura a un monologo di Scurati per celebrare il 25 Aprile. La sinistra grida al regime, la Rai risponde di essersi semplicemente rifiutata di pagare 1800 euro (lo stipendio mensile di molti dipendenti) per un minuto di monologo”. La premier, per smontare sul nascere le accuse a lei implicitamente o esplicitamente rivolte, sfodera due armi retoriche non particolarmente raffinate, ma collaudate: il benaltrismo – l’insinuazione che ci siano problemi ben più gravi di cui occuparsi e che, dunque, rispondere a un’accusa di censura sia una perdita di tempo per chi ha molto da lavorare per il bene della patria – e la deviazione del piano in cui la questione si colloca, da civile a contrattuale, con tanto di sferzante solleticata a sentimenti populisti, in quanto, secondo lei, pagare 1800 euro un monologo di un minuto offenderebbe la sensibilità dei dipendenti Rai al contrario miseramente remunerati. 

La premier prosegue dicendo di non sapere quale sia la verità e di voler comunque pubblicare il monologo per due ragioni: “1) Perché chi è sempre stato ostracizzato e censurato dal servizio pubblico non chiederà mai la censura di nessuno. Neanche di chi pensa che si debba pagare la propria propaganda contro il governo con i soldi dei cittadini. 2) Perché gli italiani possano giudicarne liberamente il contenuto”.
Nel punto primo, si pone in posizione di vittima, oggi più che mai sacralizzata: chi ha subìto censura, vale a dire lei stessa, sa cosa significa e non potrebbe mai ripagare qualcun altro con la stessa moneta. Inoltre, attribuisce a Scurati e indirettamente alla Rai che in un primo momento avrebbe ospitato (e poi non più) il monologo di Scurati la responsabilità di ritenere che sia corretto fare “propaganda contro il governo con i soldi dei cittadini”, dunque di voler finanziare con denaro pubblico una forma di indottrinamento antigovernativo. Non spetta a noi stabilire se la premier presuntamente censoria, scegliendo parole allusive e poco prudenti, abbia prestato il fianco ai contestatori, dimostrandosi più ingenua di quanto non sia di solito, oppure no, ma definire “propaganda” il contenuto di un testo che sostiene la necessità di pronunciare ad alta voce il termine “antifascismo e di liberarlo una volta per tutte dall’equivoco della sua opinabilità sembra dar ragione a Scurati quando, nel suo monologo, evidenzia l’opacità meloniana di fronte alla richiesta di condannare senza e senza ma il fascismo. Un fascismo, ricordiamolo anche a costo di risultare pedanti, anticostituzionale, vale a dire contrario alla legge.

Anche Terranova e Guerra all’attacco: la Rai abbandonata dalla Sinistra si difende dall’appropriazione di regime

Proprio ieri, altre due scrittrici, Nadia Terranova e Jennifer Guerra, hanno denunciato di aver ricevuto un trattamento simile a quello toccato a Scurati: l’evaporazione dalla scaletta sempre del programma di Serena Bortone, Che sarà, di un monologo sui pestaggi riservati dalla polizia agli studenti manifestanti a Pisa scritto dalla prima e di un intervento a difesa dell’aborto preparato della seconda. La Destra, storicamente, ha sempre assecondato, con una certa indulgenza, una più o meno riposta pulsione poliziesca, facendo spesso e volentieri pulizia di dissidenze e disallineamenti al suo pensiero. La Sinistra, d’altra parte, oggi sembra inclinare verso l’ipercorrettismo ugualmente illiberale sottraendosi alla difesa del pluralismo espressivo di cui dovrebbe invece occuparsi in via prioritaria. Ed è proprio Matteo Renzi che, nel 2015, ha riformato la Rai, alleggerendone il Cda, di cui quattro dei sette – prima erano nove – componenti ora sono espressione della volontà parlamentare mentre due vengono nominati direttamente dal governo. Neanche Silvio Berlusconi si era spinto a tanto. Certo, da premier, non amò mai la Rai ma, da imprenditore, come mostra anche la miniserie Netflix a lui dedicata, capì l’importanza di mantenere codici e propositi delle televisioni private differenti da quelli adottati dal servizio pubblico, il quale, secondo lui, di fronte alla concorrenza, avrebbe dovuto migliorare senza snaturarsi e senza abdicare mai alle sue funzioni principali, non tanto intrattenitive quanto informative ed educative.

Oggi, la concorrenza non sembra più rappresentata dalla tv berlusconiana quanto da Nove, il canale di Discovery Italia che ha sedotto due volti storici della Rai: Fabio Fazio e, più recentemente, Amadeus. Quest’ultimo, in particolare, negli anni della direzione artistica e della conduzione del festival di Sanremo (2020-2024), ha accompagnato il Paese in un processo di transizione, aprendosi all’interlocuzione coi social network – la kermesse canora è diventata l’evento per eccellenza da discutere e (sovra)analizzare nel web – e alla proposta di artisti in grado di rappresentare un’Italia viva e ipercontemporanea, indifferente – o insofferente? – sia alle strettoie ideologiche sia alle polarizzazioni generazionali. Amadeus ha compreso che cos’è il servizio pubblico cogliendo innanzitutto ciò che non è (e non deve essere mai): uno spazio in cui si possa tradire la costituzionalità del pluralismo e fare del proprio arbitrio una legge.

I social, cani da guarda dei mezzi di comunicazione mainstream

In tal senso, nella direzione cioè della conservazione della vocazione pluralista, e di conseguenza antitotalitaria, del servizio pubblico, una mano l’hanno data anche i social, spesso accusati di vampirizzare le nostre coscienze critiche: in realtà, vengono perlopiù utilizzati come agenti di dubbio, sia esso atteggiamento di costruttivo scetticismo o distruttivo disfattismo di matrice complottista, per fare il pelo e contropelo a contenuti e forme dei linguaggi usati dai mezzi di comunicazione mainstream, nei confronti dei quali l’informazione circolante via social assume un compito di vigilanza e di demistificazione, di smascheramento delle retoriche abusate, delle fallacie argomentative e, più in generale, della cattive pratiche. 

Pensiamo, ad esempio, alla corrente d’indignazione social alzatasi quando Mara Venier, senza battere ciglio e probabilmente neppure conscia delle implicazioni del suo gesto remissivo, si è prestata, lo scorso febbraio, a fare da ventriloquo all’ad Rai timoroso che le dichiarazioni pacifiste rilasciate da Ghali durante la puntata speciale dedicata a Sanremo all’interno di Domenica In potessero essere scambiate per un attacco antisionista e spiacere agli ambasciatori israeliani. I giovani e i giovanissimi, abituati a compulsare contemporaneamente più canali social – X (ex Twitter); YouTube; Twitch; TikTok, Instagram – non se la bevono più né si lasciano ‘intortare’ facilmente come i boomer: il loro fiuto allenato a cogliere l’ipocrisia propagandistica, da qualsiasi versante provenga, costringe anche gli altri media a sorvegliare la tentazione della velatura interessata o dell’infiocchettamento ideologico e, se non a impedire, a raddrizzare qualsiasi deviazione rispetto al dovere primario di restituire un’informazione credibile, priva di fronzoli retorici e di deformazioni strumentali, che risponda con rigore ai suoi fruitori e se ne infischi dei direttori.

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