Da 8½ a Shutter Island: 10 memorabili antieroi del cinema
L’errore, il malinteso della società contemporanea è che troppo spesso leggendo un libro, guardando un film o un telefilm tendiamo ad immedesimarci in personaggi assolutamente negativi o comunque privi di quei connotati morali che li avrebbero altrimenti resi eroici, nel senso tradizionale del termine. Questo paradosso ci ha sì privati dei modelli che ci erano stati consegnati dalla cultura del passato come paradigmi comportamentali, ma allo stesso tempo ha contribuito ad arricchire il contesto letterario, teatrale e cinematografico di personaggi che con la loro personalità, benché fragile e insulsa -o forse proprio per questo-, hanno imposto nuovi classici e cult-movie dei quali oggi ci sembrerebbe impossibile fare a meno. Personaggi indecisi, impacciati, irrazionali, violenti, straordinariamente, miseramente umani.
Cinema e antieroi: i 10 personaggi più straordinariamente e miseramente umani
Abbiamo scelto i nostri dieci antieroi preferiti, ovvero quelli con i quali non vorremmo mai identificarci e che tuttavia definiscono, con qualche atteggiamento o sfumatura caratteriale, la nostra stessa personalità.
10. Professione: reporter (1975) di Michelangelo Antonioni
Il deserto è l’immobile tempo-spazio in cui David Locke (Jack Nicholson) decide di cambiare vita… scegliendone un’altra! Una vicenda pirandelliana per un personaggio apparentemente vincente, un giornalista di successo, conosciuto in tutto il mondo, che è in realtà profondamente insoddisfatto del suo lavoro e del suo stile di vita che lo obbliga a passare troppo tempo lontano da casa e in luoghi inospitali e addirittura ostili, come l’insopportabile deserto che fa da sfondo maestoso a quello che è un minuscolo David, in confronto.
Ti metti sempre in una situazione reale, ma non hai un dialogo reale
È quanto gli viene rimproverato da sua moglie che non riesce a perdonare il cinico distacco che David, per professione e per carattere, mette tra sé e gli altri. Un atteggiamento che lo obbliga a mentire nelle circostanze più sfavorevoli, nascondendosi dietro il microfono e la cinepresa, simboli meschini delle sue poche certezze, che lo abbandonano non appena inizia a guardarsi dentro.
9. American Beauty (1999) di Sam Mendes
Angela Hayes è la seducente bionda Lolita, incarnazione della bellezza maliziosa che stordisce l’americano medio, risvegliandolo dal sonno passivo con cui crede di opporsi alle proprie frustrazioni. Lester (Kevin Spacey) non è l’unico personaggio del film a poter essere inserito in questa triste categoria. C’è sì Lester, padre di famiglia e impiegato insoddisfatto che prova ad emanciparsi da questa condizione attraverso sogni erotici, marijuana e attività fisica, ma c’è anche Carolyn, la sua isterica moglie, che usa il sesso adulterino per rivendicare la femminilità minacciata dall’incombente crisi di mezza età. E c’è anche Frank, il vicino di casa, omofobo e inquieto, che non trova pace con la sua sessualità.
E noi? Qual è il nostro atteggiamento davanti a questo quadro che siamo abituati a sotterrare con ipocrisie e buonismi made in U.S.A? Condanna? Disprezzo? Ma no, in fondo,
è difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo
8. Il conformista (1970) di Bernardo Bertolucci
“Voglio una vita normale: sposo una piccola borghese mediocre, piena di idee meschine, di piccole ambizioni meschine”
Tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, Il conformista avrebbe potuto intitolarsi anche le conseguenze di un regime repressivo sulla psicologia di un uomo insoddisfatto. Questi è Marcello Clerici i cui occhi brillano di desiderio solo quando descrive la normalità che si dice disposto a conquistare faticosamente, quasi come fosse una donna avvenente. Marcello non balla, non scherza, non prova sentimenti autentici. L’ordinarietà è il solo conforto al suo perenne stato di nausea sartriana che lo rende intollerante nei confronti di atteggiamenti che trova stravaganti perché semplicemente non riesce o non vuole comprendere, come quelli di sua madre. Persino quelli di sua madre. Il film è un incastro di flashback nel primo dei quali Marcello ricorda il momento in cui ebbe l’illuminazione: fare di quell’odio disgustoso verso tutto ciò che è ridicolo (una madre con un amante, un padre che assurdamente rinuncia ad una vita da sicario fascista per concluderla in manicomio) un mestiere, una missione. Prende parte così ai servizi segreti fascisti, trovando piena soddisfazione nell’esercizio in prima persona della repressione necessaria al totalitarismo per autosostenersi e a Marcello stesso per espiare i crimini della sua infanzia. Anche il matrimonio, d’altra parte, altro non è se non quello che egli sente di dovere alla società. I sensi di colpa tuttavia non lo abbandonano mai e Marcello sembra quasi lasciarsi andare in un abbraccio a Ventimiglia con una prostituta che dice di essere pazza, completamente pazza. È l’inizio di una crisi.
Il confronto-contrasto con il vero eroe del film, l’anziano professore di filosofia costretto a rifugiarsi a Parigi per sfuggire al fascismo, fa emergere Marcello in tutta la sua negatività. Non ci commuove la sua esitazione, neanche per un momento.
7. 8½ (1963) di Federico Fellini
Il tempo si dilata nella stazione termale dove Guido Anselmi (Marcello Mastroianni), regista affermato, si è recato per uno stato di malessere fisico, ma trova il luogo perfetto per evadere dai ritmi frenetici della Roma poco lontana. Le pressioni dei produttori, i giudizi dei critici, l’impazienza degli attori non fanno che approfondire la sua crisi d’ispirazione, solo un aspetto di una ben più estesa crisi esistenziale. Guido perde progressivamente il contatto con la realtà, smarrendo la sua risolutezza e capacità di agire tra i ricordi e le fantasie che gli affollano la mente.
Il sogno è un’evasione, naturalmente, dalla realtà, mentre il ricordo ne è una trasfigurazione. I ricordi, sono infatti rielaborati dall’immaginazione che il regista non ha dunque perso come crede: i gesti esasperati e le voci impostate fanno pensare ad una messa in scena teatrale. E Guido fa di più, arrivando a trasformare la realtà stessa, quella presente, non più con l’immaginazione, ma attraverso il suo stato d’animo. Un esempio per tutti: la voce dell’intellettuale che ossessiona Guido con le sue puntigliose constatazioni diventa sempre più acuta e la parlantina sempre più veloce, indice del fatto che il regista è ormai al limite della sopportazione.
6. Fight club (1996) di David Fincher
Quale salotto mi rappresenta come persona?
Edward Norton è un personaggio ordinario (tanto da non avere un nome), è per così dire quello che resta di un uomo qualunque dopo una stancante giornata di lavoro. Divorato dall’insonnia, stravolto dalla narcolessia e da piccole ossessioni ipocondriache, individua l’origine del suo malessere psicofisico nella società dei consumi, responsabile finanche di aver sostituito l’interesse per il porno con l’interesse per l’arredamento. Il protagonista è un immorale figlio del suo tempo che per sentirsi meglio con se stesso arriva a partecipare alle riunioni di un gruppo di malati terminali. Per emanciparsi da questo status di figlio-vittima del capitalismo arriva a costruirsi un alter-ego dotato non solo di migliori prestazioni fisiche, ma anche di un più deciso spirito sovversivo e attribuisce a questi la fondazione del fight club, un circolo di combattimento prima, un covo di terroristi poi, animati solo apparentemente da un senso di ripugnanza verso la società che di fatto è disprezzo e rifiuto di se stessi.
5. Match point (2005) di Woody Allen
Chi disse preferisco avere fortuna che talento percepì l’essenza della vita
Questa la morale poco edificante che guida le azioni del protagonista durante il film. Chris Wilton (Jonathan Rhys-Meyhs) è un ex tennista irlandese che ha rinunciato al professionismo per intraprendere una cinica scalata sociale che gli aprirà le porte dell’alta borghesia londinese, spregiudicata e snob, e del cuore di Chloe, che di questa società è solo una figlia un po’ ingenua. Chris è un arrivista, schiavo delle sue ambizioni più superficiali, come partecipare ad una battuta di caccia o sedere al prestigioso Royal Opera House, nonostante la sua autentica passione per la lirica. In effetti, Chris, passioni ne ha: la musica, Nola Rice (la sensuale Scarlett Johansson), il tennis, Dostoevskij; ma non esita a rinunciarvi per il perseguimento dei suoi obiettivi e suscita quasi pena, nello spettatore, per il suo attaccamento ai vizi della bella società. Prevale tuttavia un sentimento di condanna e un amaro stupore per come la fortuna fornisca alibi perfetti ai delitti clamorosamente imperfetti di Chris, il quale manca evidentemente di qualità morali, ma anche di un minimo spirito organizzativo e pertanto non risulta neanche degno di un confronto con il modello dostoevskijano.
4. Taxi driver (1975) di Martin Scorsese
“In ogni strada di questo paese c’è un nessuno che sogna di diventare qualcuno. È un uomo dimenticato e solitario che deve disperatamente provare di essere vivo.”
Travis Bickle (Robert De Niro) è eroe ed antieroe, quindi un personaggio unico ed irripetibile. Una New York infernale è lo sfondo della sua vicenda che lo porta a diventare parte del lerciume metropolitano, che non ha mai condannato, ma sempre osservato, senza neanche una reale curiosità, più per un irrazionale desiderio di fondersi con questa. Un mestiere improvvisato, quello del tassista. Sfruttare l’insonnia lancinante per dimenticare gli orrori di una guerra combattuta in un paese straniero, il Vietnam, questo è il vero motivo che porta Travis in giro per la città, senza tregua, come se i suoi sensi non si saziassero mai abbastanza del disgustoso spettacolo che le notti d’estate offrono a chi è tanto misero e solo da restare a guardare. Eppure, Travis non riesce ad integrarsi, a recuperare il rapporto con gli altri, neanche con le donne che sono tutte uguali, neanche con se stesso perché, in fondo, neanche si riconosce nell’immagine che cerca di costruirsi allo specchio. A chi parla veramente De Niro nella improvvisazione più geniale della storia del cinema?
3. Shutter Island (2010) di Martin Scorsese
L’isola spettrale che dà il nome al film è il nonluogo della mente confusa di Teddy Daniels (Leonardo DiCaprio) e del manicomio criminale dove pare si mettano in atto metodi disumani di cura. Presentimenti terribili, ricordi anche peggiori del massacro di Dachau e di sua moglie depressa generano nel detective una sensazione di malessere permanente, così simile al mal di mare (ma il mare è calmo in maniera inquietante, allora di cosa potrebbe trattarsi?), e pregiudicano ogni tentativo di azione. Teddy è prigioniero degli scherzi della sua mente tormentata e malata e non c’è liberazione, né lieto fine per lui.
Le ferite possono creare mostri. E lei…lei, agente, ha tante ferite
2. Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick
Difficile ammettere che Alex DeLarge è solamente un uomo libero. Un uomo che ama il sesso e la violenza e nutre le sue perversioni bevendo il lattepiù. Predisposto naturalmente ad amare la cultura e la musica, l’uomo primordiale cui Anthony Burgess, scrittore del romanzo distopico e fantapolitico cui Kubrick si è ispirato, ha dato un nome ed un cognome, non ne accetta di questa nessuna strumentalizzazione. Così grida disperato di lasciare in pace il buon vecchio Van, che non ha mai fatto niente di male a nessuno, ha solo scritto musica, quando viene costretto ad ascoltare il suo amato Beethoven, nel programma di rieducazione cui viene sottoposto. L’esito del trattamento non sortisce l’effetto sperato: la nausea che accompagna Alex ogni volta che assiste ad atti di violenza, non ha modificato il suo modo di pensare, ne ha solo inibito l’azione, reprimendo quella che è una naturale vocazione all’Ultraviolenza. Da criminale a vittima di una società ossessionata dall’esigenza del controllo dei suoi individui, paranoica e ostile, a pedina di strategie politiche ed elettorali: Alex non è più un uomo libero ed è addirittura spinto al suicidio. Ma alla fine guarisce, eccome!
1. 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter
In occasione del suo 68esimo compleanno omaggiamo John Carpenter assegnando a Jena Plissken (Kurt Russel) il primo posto tra i nostri antieroi.
A caratterizzarlo uno spirito cinico e spregiudicato, diffidente nei confronti del governo statunitense che lo ha condannato alla pena capitale, in un contesto in cui il problema della sicurezza è stato affrontato, in una visione fantascientifica, trasformando l’intera città di New York in un carcere e mettendo in atto provvedimenti pesantemente repressivi.
Testo di Francesca Menna