Da Roger Rabbit a Space Jam: i migliori film in tecnica mista degli ultimi 30 anni
Prima dell'arrivo della computer grafica, c'era la tecnica mista: un virtuosismo che, dopo Mary Poppins negli anni '60 e Roger Rabbit negli anni '80, trova spazio nei nostri cinema ancora ai giorni nostri. Ma quali sono i film più importanti degli ultimi 30 anni che fanno uso di questo sbalorditivo “trucco di magia”? Riscopriamoli assieme!
Anzitutto, una definizione: dicesi “tecnica mista” un espediente di realizzazione che mescola materiali e mezzi non appartenenti alla stessa natura. Al cinema, un film è a tecnica mista quando combina persone reali e personaggi animati nello stesso frame, offrendo la sensazione di una coesistenza di fatto impossibile. Un esempio? L’indimenticabile Chi ha incastrato Roger Rabbit, che mette sullo stesso piano l’investigatore Eddie Valiant e la vamp Jessica, il coniglio disperato Roger e l’agghiacciante giudice Morton. Ed è proprio festeggiando i primi 30 anni di vita del capolavoro (ogni tanto usiamola questa parola!) zemeckiano che vi proponiamo una panoramica – non di certo esaustiva – di quelli che a nostro parere sono i migliori film degli ultimi 30 anni realizzati mixando sapientemente live action e cartoon. Buon divertimento!
I 10 migliori film in tecnica mista, da Roger Rabbit ai giorni nostri
Chi ha incastrato Roger Rabbit (Robert Zemeckis, 1988)
Un uomo chiamato… coniglio. Raccogliendo l’eredità di Fantasia (1940), Mary Poppins (1964) e Pomi d’ottone e manici di scopa (1971), Zemeckis realizza nel 1988 il film che nessuno si aspettava, un modello tutt’ora insuperato: Chi ha incastrato Roger Rabbit, un torbido noir ambientato nella Hollywood degli anni ’40 in cui esseri umani e cartoni (provenienti dalla Disney, dalla Warner Bros e da altri studi minori) dialogano sullo stesso identico piano, come fosse la cosa più normale al mondo.
Il multiverso di Roger Rabbit entra di diritto nel nostro immaginario: chi di noi non ha subito il fascino della femme fatale Jessica Rabbit o non ha temuto che nei propri incubi comparissero il giudice Morton con le sue faine? Sono passati 30 anni ma sembra ieri: Roger Rabbit non invecchia mai, ed è proprio la sua eterna giovinezza a renderlo universale, fondamentale, uno dei prodotti imprescindibili della storia del cinema.
Volere volare (Maurizio Nichetti, 1991)
Da sempre amante della sperimentazione e del meta-cinema, all’inizio degli anni ’90 il milanese Maurizio Nichetti (uno di quegli autori sottovalutati di cui andrebbe recuperata quasi tutta la filmografia: da Ratataplan a Il Bi e il Ba, da Ladri di saponette a Luna e l’altra) realizza uno dei rari esempi di tecnica mista italiana: Volere volare, storia di un rumorista deciso a mantenere viva la relazione con la propria compagna nonostante lui… si stia trasformando in un cartone animato!
Un’opera irresistibile e trasognata, premiata all’epoca dal Montreal Film Festival (Miglior Regia e Premio del Pubblico) e dai giornalisti della stampa estera (Globo d’Oro).
Smarrita la sua stramba vena creativa, Nichetti oggi è direttore artistico del Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano e si limita al ruolo di attore (Arrivano i prof, 2018)… ma noi restiamo in attesa che una nuova stralunata e originale idea lo riporti dietro la macchina da presa.
Fuga dal mondo dei sogni (Ralph Bakshi, 1992)
E se Kim Basinger fosse un cartone animato? Tenero, farsesco e divertente, Fuga dal mondo dei sogni alza l’asticella della tecnica mista, mettendo a confronto due mondi – Aldiqua in carne e ossa, Aldilà animato – in cui i protagonisti cambiano letteralmente connotati in base alla realtà in cui vengono calati. Un sogno (e un incubo) abitato dall’allora superstar Basinger, da un giovanissimo Brad Pitt e da un vagamente spaesato Gabriel Byrne (Crocevia della morte, I soliti sospetti, La fiera della vanità).
Non si può dire che Fuga dal mondo dei sogni sia un film del tutto riuscito, ma neanche che sia un fallimento: semplicemente, fatica a trovare il proprio pubblico di riferimento. Troppo assurdo e incredibile per far presa sugli adulti, troppo noir e intricato per piacere al target giovanile. Ma è un po’ il marchio di fabbrica del regista Bakshi: la satira di tematiche “di peso” (razzismo, nazismo, cultura pop) tramite utilizzo di estetiche animate (rotoscopio, tecnica mista, disegno iperrealistico).
Last Action Hero – L’ultimo grande eroe (John McTiernan, 1993)
Smaltita la sbornia “muscolare” degli anni ’80, a partire dal 1990 Arnold Schwarzenegger cerca di reinventare e ridisegnare la propria immagine, rendendola più adatta ad un pubblico trasversale e familiare. In questo periodo gira Un poliziotto alle elementari (1990), True Lies (1994), Junior (1994), Una promessa è una promessa (1996)… e Last Action Hero, in cui interpreta molto autoironicamente un eroe del cinema d’azione alle prese col suo fan numero 1.
E la tecnica mista che c’entra? C’entra, come no: a salvare Schwarzy ad un certo punto sarà nientepopodimeno che Whiskers, un gatto-cartoon poliziotto doppiato in originale da Danny DeVito. Forse una scena scult, ma è tutto il film a spingere sull’acceleratore dell’assurdità, strizzando l’occhio allo spettatore: dalle citazioni colte (Il settimo sigillo di Bergman) agli attori che interpretano loro stessi (Sharon Stone, Jean-Claude Van Damme), passando per Tina Turner sindaco di Los Angeles!
Pagemaster – L’avventura meravigliosa (Joe Johnston, 1994)
A caccia di rilancio dopo i grandi successi di Mamma, ho perso l’aereo (1990) e Mamma, ho riperso l’aereo (1992), l’allora 13enne Macaulay Culkin punta tutto su due nuove fiammeggianti produzioni, entrambe datate 1994: Pagemaster e Richie Rich. Il botteghino è impietoso: entrambi i film sono dei disastri commerciali, e sanciscono la definitiva eclissi del piccolo wannabe-divo.
Peccato: soprattutto Pagemaster possiederebbe più di un motivo d’interesse, nonostante a quasi 25 anni di distanza senta inevitabilmente il peso degli anni trascorsi. Lo spunto dell’avventura favolosa in un mondo parallelo – per superare i propri limiti e le proprie paure – è cavalcata con brio e fantasia, ma paga il confronto con altre due opere a tematica fin troppo simile, realizzate negli stessi anni: Hook – Capitan Uncino e Jumanji, quest’ultimo realizzato dal medesimo Joe Johnston di Pagemaster.
Space Jam (Joe Pytka, 1996)
Tutto nasce da uno spot televisivo con Michael Jordan e Bugs Bunny, ed è subito cult: perché non realizzare un film sul basket impreziosito dalla presenza dei cartoni animati Warner Bros? Il mix di sport e Looney Tunes porta al successo, inaspettato e insperato: Space Jam è probabilmente il miglior risultato della tecnica mista “classica” (seppur con un utilizzo invisibile ma innegabile di trucchi elettronici), secondo solo a Roger Rabbit.
Un trionfo non annunciato e – forse proprio per questo – irresistibile: le sequenze della partita di pallacanestro fra alieni e Daffy Duck & Co. rendono perfettamente l’idea del divertimento in atto, con l’aggiunta dei personaggi animati alle immagini dal vivo dei vari campioni NBA (Charles Barkley, Patrick Ewing, Larry Johnson e Shawn Bradley). Nonostante ne sia stato più volte annunciato un sequel, per ora Space Jam resta un unicum, assimilabile al solo Looney Tunes: Back in Action (2003).
Osmosis Jones (Peter e Bobby Farrelly, 2001)
Con l’aumento qualitativo della computer grafica, la tecnica mista dagli anni 2000 inizia a vivere una prevedibile crisi: ormai non serve più, sostituita da effetti speciali di ultima generazione che rendono l’interazione fra umani e personaggi/animali “inventati” pressoché perfetta. I fratelli Farrelly decidono di muoversi controcorrente, realizzando nel 2001 il bizzarro Osmosis Jones.
Rispetto al passato c’è tuttavia una differenza sostanziale: scene animate e scene dal vivo sono del tutto separate, come fossero due pellicole diverse. Il live action viene utilizzato per dare il via alla storia, incentrata su un guardiano dello zoo (Bill Murray) che poco igienicamente mangia un uovo caduto nella gabbia degli scimpanzé; l’animazione rappresenta l’interno del corpo del protagonista, paragonato ad una metropoli in cui il sistema immunitario è la stazione di polizia.
Lo spunto è originalissimo, il risultato purtroppo non del tutto soddisfacente: si avverte chiara e netta la separazione fra la staticità delle riprese dal vero e la vivacità del cartoon.
Looney Tunes: Back in Action (Joe Dante, 2003)
Erano anni che Joe Dante (Gremlins, Small Soldiers) sognava di realizzare un film sui Looney Tunes. Avendo come precedente Space Jam, il sogno diventa realtà: nel 2003 Bugs Bunny e soci tornano – parafrasando il titolo – in azione, rilanciandosi e rinverdendo il proprio successo. Il cast (fra cui spiccano Brendan Fraser, Steve Martin, Joan Cusack e naturalmente Michael Jordan) si mette al servizio di una storia al contempo giocosa e trasgressiva, che prende le mosse dall’assurdo licenziamento di Daffy Duck dagli studi della Warner.
Gli effetti speciali – oltre alla tecnica mista – ci sono e si vedono, ma non sono invadenti. Svariati i momenti irresistibili, ma senza alcun dubbio spicca l’invasione al Louvre, con la rielaborazione dei più noti quadri del puntinismo francese. Opera riuscitissima, che non sfigura di fronte al nascente tornado CGI: missione più che compiuta.
Come d’incanto (Kevin Lima, 2007)
Prima della reinvenzione dei cosiddetti “classici” in live action (di cui prossimamente le sale di tutto il mondo saranno invase), la Disney nel 2007 rende omaggio… a se stessa, con la produzione di Come d’incanto, gustoso e auto-ironico gioco meta-cinematografico in cui una principessa proveniente dal mondo delle fiabe si ritrova un giorno catapultata in un luogo reale in cui “nessuno vive felice e contento”: New York. Tutta colpa di una infida matrigna gelosa, come da tradizione.
Si può provare a resistere a Come d’incanto, ma è difficile: tutto è calibrato e funzionale, comprese le interpretazioni credibilissime – e divertite – dei vari Amy Adams, Timothy Spall e Susan Sarandon. La Disney ha ovviamente messo in cantiere un sequel: dovrebbe intitolarsi Disincantato, per la regia di Adam Shankman. (Hairspray – Grasso è bello).
Paddington (Paul King, 2014)
Dilemma: ma fino a che punto si può continuare a parlare di tecnica mista? A rigor di logica oggi quasi nessun film si avvale solo dell’interpretazione reale di attori in carne e ossa, ma questo non significa che tutte le pellicole siano realizzate in tecnica mista. Nell’eterno divenire in cui è immersa la settima arte contemporanea occorre scegliere, e noi scegliamo: opere quali Alice in Wonderland, Un’occasione da Dio e Il GGG ci sembrano solo usare al meglio le rivoluzionarie tecniche di computer grafica, ma non scorgiamo traccia di tecnica mista; mentre invece lavori quali I Puffi, Peter Rabbit e Paddington pare tengano ancora fede alla logica live action più animazione.
Forse ci sbagliamo, ma abbiamo la sensazione che l’orsetto Paddington cammini davvero per le vie di Londra, che interagisca sul serio con Sally Hawkins e Nicole Kidman. E, soprattutto, che sospenda a dovere l’incredulità lasciandoci credere che quel mondo possa effettivamente esistere. Potere del cinema e forse, chissà, potere della tecnica mista.