Editoriale | Perché Damien Chazelle è il miglior regista della sua generazione
Whiplash, La La Land, First Man: dopo i suoi tre primi film è il momento di dirlo. Damien Chazelle è il migliore regista della sua generazione.
Si dice che si riesce a delineare meglio la strada di un regista quando quest’ultimo arriva al suo terzo film. Damien Chazelle è giunto a destinazione, realizzando il suo nuovo lungometraggio e finendo per atterrare, addirittura, sulla luna. È di un uomo e il suo primo passo, che rappresenta poi l’umanità, che la luccicante pellicola First Man – titolo italiano Il primo uomo – parla, portandoci non solo sulla destinazione più lontana e sognata, ma nella mortalità di un evento tra i più emozionanti della nostra storia. Nonché permette di aprirci ad una prima analisi della cinematografia di questo autore di Provience, il più giovane cineasta ad aver vinto un Oscar nella categoria della Miglior regia nel 2017 per l’amatissimo musical tra rimandi e canzoni La La Land.
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Chazelle, dunque, che regista è? Di certo non può essere altro se non il migliore della sua generazione. E non si tratta assolutamente di una definizione che va calzandogli troppo larga, ma soltanto la più onesta forma di comprensione delle qualità artistiche di un amante del cinema, che ha saputo unire passione e conoscenze per farne poi dono al suo pubblico.
Damien Chazelle: un corto, Andrew Neyman e quelle bacchette sporche di sangue: la forza del primo film Whiplash
Partendo dal 2014 con il suo film d’esordio Whiplash – che nasce da un corto prodotto da Jason Blum e Jason Reitman, con già presente al suo interno il futuro premio Oscar JK Simmons – Damien Chazelle pone le prime caratteristiche della sua preparazione filmica, utilizzando la musica per veicolare il racconto e le riprese per rafforzarlo. È, infatti, la regia a comunicare in maniera primaria con lo spettatore, rendendo comprensibile il linguaggio delle immagini e facendo in modo che siano le inquadrature a comunicare con più profondità gli elementi che compongono la storia, dando gli input necessari per catalizzare l’attenzione e non eccedere in parole.
Sono le mani, le bacchette e i piatti sporchi di sangue a far trasudare tutta la rabbia e la motivazione giovanile del protagonista Andrew Neyman, interpretato dall’attore Miles Teller. Nel sudore che gronda fino al più scompigliato dei suoi riccioli, nella direzione dell’orchestra da parte del maestro Terence Flecher che passa tutta attraverso i gesti precisi delle sue mani. E, soprattutto, nella ripresa di quelli sguardi micidiali, lunghi ed intensi, che Chazelle taglia in maniera tale da poterli caricare di tutta quella determinazione dei musicisti presentati e del loro non voler piegarsi, se non al tempo che decide la musica.
Una narrazione filmica che passa per i dettagli quella di Whiplash, che si ripresenta con più ampio respiro nella messa in danza e colori in quello che era il desiderio primo di Damien Chazelle e che il regista voleva essere sicuro di saper affrontare nel migliore dei modi. La La Land è l’opera che l’autore sognava di girare, è la storia che portava dentro e che voleva tanto perfetta da decidere di riporla in un cassetto e aspettare che il mondo si accorgesse di lui, offrendogli la produzione più adeguata alle esigenze della pellicola e dopo aver acquistato la confidenza necessaria per affrontare il mondo dell’industria cinematografica. Perché, poi, è in fondo questo che Chazelle va mostrando con il suo musical, in cui alza ancora di una tacca il valore del suo talento.
Quel sogno chiamato musical: La La Land
In La La Land va esprimendosi tutta la natura registica del cineasta: il musical di Chazelle è la contemporaneità che sa guardare indietro e trarre dalla stagione gloriosa del cinema americano tutti gli elementi per riportarlo in vita, non dimenticando di doverlo rimaneggiare con stilemi moderni e un appeal che si rifaccia completamente ai nostri giorni. Una Hollywood classica con cui il giovane gioca per trasformarla poi in contemporaneità. È, infatti, il più classico degli ambienti quello che il film riporta, con il set cinematografico che si affaccia sulla finestra di Casablanca e con il volto di Ingrid Bergman riproposto come gigantografia nella camera della protagonista Emma Stone.
E l’amore che i due personaggi di Sebastian e Mia provano per la loro arte è la stessa che Damien Chazelle prova per il cinema. Quel cinema andato da cui lui sa prendere, che ha assimilato nella sua cultura da spettatore e ha reso attuale nei suoi panni da regista. È la maniera più classica di raccontare una storia – cinematograficamente parlando – e insieme la più inerente al proprio tempo, inserendola in una contemporaneità in cui Damien Chazelle ha riposto la magia passata.
Per questo Chazelle è il regista, ad oggi, più tradizionale nella sua grande comprensione del cinema della nostra epoca. È il ritorno ad una narrazione che passa prima di tutto per le immagini e solo dopo sofferma la propria concentrazione su frasi e parole. È l’occhio della macchina da presa che si sofferma sui personaggi, sulle loro vite, sul contesto che li circonda e che contribuisce a descriverne la loro storia, e in cui Chazelle sembra rinchiudere tanti maestri che hanno contribuito a creare la filmografia del novello regista e che costui tenta di far brillare ancora oggi in vesti originali.
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E, approdando alla conquista della luna e dirigendo il suo terzo film First Man, Damien Chazelle va solidificando quelle caratteristiche che lo hanno accompagnato per i suoi due primi capolavori, aggiungendo alla lista delle sue abilità quella di saper condurre il pubblico nell’universo più nero, tra le stelle più luminescenti. Utilizzando, in più, sempre quello che si sta andando a confermare il suo stile personale, quella tecnica di ripresa che contiene al suo interno tutto ciò che è importante ai fini della narrazione. Non solo estetica – ottima e al contempo molto raffinata -, ma una vera e propria poetica della regia, che permette ai suoi film di ritornare a quella funzione principale per cui il cinema è nato.
Ne è ancora un più chiaro esempio tutta l’ultima parte del suo lunare film. Neil Armstrong – interpretato da Ryan Gosling, alla sua seconda collaborazione con il regista dopo La La Land – mette la tuta, entra nella navicella che lo catapulterà lontano dalla Terra e, dal momento della partenza per tutto il conseguente viaggio, è solo la regia a farci intuire la ristrettezza del mezzo di trasporto e le sensazioni del protagonista. La macchina da presa si muove allo scuotere delle onde che causano scossoni alla navicella, perde il controllo come accade a Armstrong e poi riflette negli occhi del personaggio un orizzonte argenteo quando arriva in prossimità della luna. È pura emozione quella che ha da offrirci Damien Chazelle, l’agitazione che muta in meraviglia nei frame senza suoni che seguono lo sbarco. Solo profondità, silenzio, emozione. Solo la scelta di riprendere e come riprendere quegli istanti, che rimangono fissi tanto negli occhi di Neil Armstrong quanto in quelli dello spettatore.
Damien Chazelle è il miglior regista della sua generazione. È la visione di un cinema che sa da dove viene e cosa raccontare. È la prospettiva di saper come maneggiare il materiale secondo l’insegnamento datogli dai grandi, ma insieme aggiungendo quel tocco del tutto fresco e, soprattutto, proprio, che al suo terzo film si mostra in perfetta assonanza con le prime tappe del suo percorso. Un regista che ha intrapreso una rotta di bellezza visiva sensazionale e piena di significato, che speriamo possa spingersi sempre più in là, anche oltre la luna.