Non solo Dogtooth – 5 film per conoscere il Nuovo Cinema Greco
Chiamatela New Weird Wave, Nouvelle Vague ellenica o, più semplicemente, Nuova Onda: quella greca è una delle realtà più stabili della cinematografia europea. Una storia che trae spunto dal disagio di una nazione in panne, in piena crisi di identità.
La chiamano New Weird Wave, la Nuova Onda “stramba”, e non assomiglia a nulla di ciò che avete visto fino a questo momento. Lo spettro della cinematografia greca si aggira nei festival internazionali da ormai una dozzina di anni, con la sua messinscena respingente e l’incapacità da parte di critica e pubblico di stabilirne in modo univoco i connotati. Nulla che abbia a che fare con la “classicità” dei vari Theo Angelopoulos e Costa-Gavras, ovviamente: la nuova generazione di cineasti ellenici filma per spiazzare, ferire lo sguardo di chi osserva, rimarcando lo smarrimento dell’uomo contemporaneo.
Dogtooth: leggi la recensione e spiegazione del film di Yorgos Lanthimos
E, soprattutto, per metaforizzare in modo inquietante la quotidianità di un popolo annichilito dalla crisi. L’alfiere di questa rivoluzione è probabilmente Yorgos Lanthimos, il primo a mettere su pellicola la deriva sociale e culturale di una nazione ossessionata da se stessa. I suoi Kinetta (2005) e Dogtooth (2009, portato ora per la prima volta in sala grazie a Lucky Red) sono manifesti, vicende paradossali e disturbanti che rimandano a una poetica votata alla denuncia della perdita di identità. Una bizzarra Nouvelle Vague, forse la più interessante proposta europea degli ultimi lustri, da scoprire e riscoprire attraverso i suoi titoli più rappresentativi.
Tutto il meglio della Nouvelle Vague greca, in 5 film da vedere
Alps (Yorgos Lanthimos, 2011)
È grazie al successo e alla più ampia visibilità ottenuta da The Lobster (2015), Il sacrificio del cervo sacro (2017) e La favorita (2018) che le prime seminali opere di Yorgos Lanthimos sono venute faticosamente e finalmente a galla. Alps – Premio Osella per la Migliore Sceneggiatura a Venezia 68 – ha raggiunto le sale italiane nel 2016, a cinque anni dalla sua realizzazione. Al pari di Dogtooth, anche Alps punta dritto all’urgenza narrativa, come un urlo disperato di denuncia.
L’Alps del titolo è un servizio di “compagnia a pagamento”, che offre a chi sta soffrendo un lutto la possibilità di sostituire la persona scomparsa. I membri della società (una ginnasta e il suo allenatore, un medico e un’infermiera) vendono affetto, sesso e quotidianità, interpretando vite altrui meccanicamente. Lanthimos riflette sull’anonimato e sulla situazione della Grecia, non-luogo alla fine della civiltà popolato da esseri umani impauriti che stabiliscono nuove regole arbitrarie da seguire con ferrea disciplina.
Miss Violence (Alexandros Avranas, 2013)
Il sipario si apre su un interno familiare apparentemente felice, dove si festeggia il compleanno dell’undicenne Aggeliki. Foto, candeline da spegnere, e un ballo con il nonno. Qualcosa però stona, gli occhi sono tristi e i sorrisi sono bolsi, elargiti meccanicamente. La piccola Aggeliki esce dal salotto, si sporge dal terrazzo e si butta nel vuoto. È un atto di ribellione, l’unico di questa storia agghiacciante e simbolica, per certi versi simile al modello Dogtooth.
In Miss Violence la violenza fisica e psicologica si insinua lenta ed inesorabile, attraverso una regia claustrofobica fondata su inquadrature fisse e una cura chirurgica del “non visto”. Il tutto seguendo il filo rosso che lega esperienza particolare (tratta da una vicenda realmente accaduta) a analisi universale di un’intera nazione in panne. Ancora una volta, il centro totale dell’attenzione è la perdita di identità dell’individuo, schiacciato e castrato dalla crisi e dal crollo delle istituzioni.
Chevalier (Athina Rachel Tsangari, 2015)
A unire idealmente i lavori di Lanthimos e dei suoi epigoni è lo sceneggiatore Efthymis Filippou. Filippou è la mente “politica” dietro alle principali istanze del Nuovo Cinema Greco, come dimostra anche Chevalier, vincitore del London Film Festival 2015. Un’opera femminista – diretta dalla stessa regista di Attenberg (2010), Athina Rachel Tsangari – popolata da soli uomini nel mezzo del Mar Egeo, in lotta tra loro per l’elezione del maschio alfa, in prove sempre fisiche e mai intellettuali.
È la rappresentazione, grottesca e feroce, del maschilismo imperante fine a se stesso. Una commedia, una favola cinica che gioca con metafore e stereotipi ripercorrendo una delle tappe fondamentali della New Weird Wave: abbandonato a se stesso, l’essere umano dà vita a nuovi sistemi di valori, nuovi immotivati e ingiustificati microcosmi all’insegna della vacuità e dell’illusorietà. La donna in questo caso resta fuori o, per meglio dire, osserva dall’alto la sempiterna inutilità del patriarcato.
Interruption (Yorgos Zois, 2015)
Interruption sembra sì affrontare la tematica grottesca della perdita d’identità e dell’istituzione di nuove regole sociali, ma al contempo se ne discosta guardando ad altro, ad una fitta trama di sottotesti perlopiù intelleggibili e di ostica comprensione. Un film sull’atto del vedere, tratto da una storia vera: il 23 ottobre 2002 cinquanta ceceni armati presero in ostaggio 850 spettatori nel teatro Dubrovka di Mosca. Durante i primi minuti dell’attacco, il pubblico, ammaliato dall’ambivalenza del momento, pensa che tutto ciò faccia parte dello spettacolo.
Mentre la tensione cresce e l’apparente “scherzo” assume i contorni della tragedia, la platea ancora comodamente seduta ride, applaude, si diverte. I personaggi che salgono sul palco non sono “in cerca di autore”, ognuno ha la sua storia e il suo vissuto, ma senza alcun dubbio sono disposti a ricoprire finalmente il ruolo da protagonista che nella vita non hanno mai avuto. Quello imposto nella pellicola di Zois è un esercizio di retorica da cui è impossibile fuggire, nella sua mescolanza di finzione e realtà, verità e menzogna, logica e assurdità.
Suntan (Argyris Papadimitropoulos, 2016)
Apparentemente più convenzionale rispetto ai suoi predecessori, Suntan mette in scena la tragedia di un uomo ridicolo: Kostis, impacciato dottore 40enne, si trasferisce per lavoro su un’isola e in estate si innamora della giovane e libera Anna. La ragazza diventa un’ossessione totalizzante per il medico, che architetta un personalissimo piano per conquistare l’oggetto del suo desiderio. L’occhio di Papadimitropoulos non si concentra però solo sul protagonista ma anche sul gruppo dei 20enni vacanzieri, rimarcandone superficialità e totale mancanza di empatia.
Come a dire che nessuno si salva, che l’umanità è fisiologicamente imbevuta di narcisismo, patetismo e frustrazione. Caratteristiche che possono portare alla violenza e alla follia, ad una forma di sofferenza e solitudine lacerante priva di sbocchi e soluzioni. La messinscena è esemplare: Suntan ha le tonalità, le luci e la cadenza della commedia; ed è invece, nei fatti, un dramma cupo e terrificante, che nella sua seconda parte sconfina nell’horror e nella classica deriva del sonno della ragione che genera mostri.