È stata la mano di Dio: personaggi e maschere del dramma sorrentiniano
Con È stata la mano di Dio Paolo Sorrentino mette in scena una miscellanea di personaggi, maschere di una commedia italiana e di un dramma personale.
È infine approdata anche su Netflix l’ultima fatica del regista premio Oscar Paolo Sorrentino, che con questo racconto di formazione, È stata la mano di Dio – film amorevolmente autobiografico – ha voluto rendere omaggio alla sua famiglia, a Napoli, al cinema e a Maradona che gli ha salvato la vita.
Figure mitologiche e folkloristiche, caricature, personaggi grotteschi, maschere e icone pop sono i protagonisti assoluti di questa Napoli fellinian-sorrentiniana anni ’80 – così fascinosa e poetica, così caotica e fuori dagli schemi – che ruotano intorno al personaggio principale, Fabietto Schisa (il nome di fantasia che si è dato Paolo Sorrentino), interpretato dall’attore esordiente Filippo Scotti, Premio Mastroianni 2021.
Fabio è un adolescente di 16 anni, timido e schivo, riccioluto e un po’ goffo, che ancora non sa cosa vuol fare da grande. Ha una sorella, che non si vede quasi mai perché è sempre chiusa in bagno, e un fratello aspirante attore, ma troppo somigliante a “un cameriere di Anacapri”, per citare le parole che il regista mette in bocca al maestro Fellini (di cui sentiamo solo la voce) alla fine di un provino, e troppo poco ambizioso per diventarlo. Insieme vivono al Vomero con mamma e papà – l’attrice Teresa Saponangelo e l’attore Toni Servillo – e come tutti i cuori partenopei sognano l’arrivo del fuoriclasse argentino, Diego Armando Maradona, al Napoli.
È stata la mano di Dio colleziona nella prima parte una galleria di figure, volti da commedia all’italiana, alcuni suggestivi, come il San Gennaro Enzo Decaro, altri caricature un po’ forzate come la Signora Gentile (Dora Romano), che gentile non è e ingurgita mozzarelle con la stessa avidità del leone che sbrana la gazzella, ma capace di “sentire” e di slanci poetici disarmanti, come ad esempio citare alcuni versi della Divina Commedia, o come i vicini altoatesini, o la baronessa Focale, cinica e lucida, che avrà anche il ruolo chiave di iniziare il giovane Schisa ai piaceri carnali dell’amore.
È stata la mano di Dio: figure divine e salvifiche nel film di Paolo Sorrentino
Maradona è una sorta di figura divina e salvifica, sia per la città, a cui questa leggenda del calcio regalerà lo scudetto che per il regista, a cui di fatto il calciatore argentino salverà la vita: per assistere ad una partita, Empoli-Napoli, e ammirare il suo idolo in azione, Fabietto rinuncerà al weekend in montagna, nella casa a Roccaraso dei suoi genitori, che moriranno nel sonno per via di una fuoriuscita di monossido di carbonio. “È stata la mano di Dio”, dirà lo zio Alfredo, Maradoniano irriducibile, a Fabietto in tono teatrale e profetico dopo il tragico inaspettato evento che cambierà per sempre la vita e le scelte del giovane protagonista. Perché la realtà è scadente, come disse il grande maestro Federico Fellini, ma il cinema lo aiuterà a ricostruirla. E il suo spirito aleggia sul film già dai primi minuti, in cui assistiamo alla scena emblematica di un ingorgo stradale, citazione del film 8 ½.
L’altro spirito guida, è il munaciello, figura mitologica e popolare del folklore napoletano. Secondo la tradizione partenopea può avere una natura benefica o dispettosa e viene di solito rappresentato come un ragazzino deforme e di bassa statura, abbigliato con un saio e fibbie argentate sulle scarpe. Sorrentino lo chiama in causa a darci sia il benvenuto che l’arrivederci: alla fine del film Fabio si arrende al suo destino, al futuro, al sogno del cinema con la benedizione del munaciello alla stazione di Roma Casilino. Il piccolo monaco era già apparso alla conturbante zia Patrizia in una delle suggestive sequenze iniziali, quando la donna viene condotta da San Gennaro, altra figura salvifica, dentro Palazzo Zapata ad incontrare la figura del misterioso monachello incappucciato affinché lei possa rimanere incinta del marito. L’incontro si compie, tra il sacro e il profano.
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Mamma, papà e zia Patrizia: gli amori idilliaci di Fabietto, alter ego di Paolo Sorrentino
Giocosa e malinconica, mamma Maria ha una vena burlesca ed è capace di fare scherzi borderline, sia telefonici che dal vivo, talmente spinti che il marito, prima di morire in ospedale asfissiato dal monossido di carbonio dirà: “A Mari’ nun fa scherzi!”. Tenera come sa essere una mamma amorevole ed emotiva ai massimi livelli, l’attrice che la interpreta, Teresa Saponangelo, ci regala una delle scene più intense del film quando scopre che il marito la tradisce ancora con una collega di lavoro. Ma il regista figlio ce li racconta come una coppia solida e innamorata, che si saluta ogni volta con un fischiettìo, quasi un cinguettìo romantico di due uccellini inseparabili. Nel film la mamma rappresenta l’amore incondizionato, il perdono e l’importanza del gioco.
Papà Saverio è un personaggio anche lui sui generis, sempre pronto all’ilarità: ha un sorriso malizioso e accattivante, inconfondibile, ma è un uomo che sa coltivare certi valori e che sa guidare la famiglia. È molto legato alla moglie e ai suoi tre figli, pur avendo un’amante e persino un quarto figlio. Tra lui e Fabietto c’è una certa complicità maschile: papà Saverio lo sprona, forse anche un po’ superficialmente ad affrontare e togliersi questa “prima volta”, con qualsiasi donna gli capiti a tiro. È forse uno dei personaggi più carismatici, ed è quello che invita Fabio/Fabietto a prendere la vita con leggerezza.
Ma Fabietto è attratto all’inverosimile dalla zia Patrizia (l’attrice Luisa Ranieri, in stato di grazia). Zia Patrizia è una Dea, la quintessenza della bellezza, ma si comporta in modo eccentrico, forse a seguito di un crollo psicologico dovuto al fatto di non poter avere figli. Zia Patrizia rappresenta la musa di Fabietto e il suo primo amore segreto, nonostante la follia della donna il ragazzo le crede ciecamente e si fida di lei. Dopo un aborto (la donna era riuscita a restare miracolosamente incinta dopo l’incontro iniziale con il munaciello e San Gennaro…) provocato da percosse inferte alla donna dal marito geloso, Franco – interpretato dall’attore Massimiliano Gallo – la troveremo affacciata alla finestra di un manicomio.
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La trasformazione del protagonista: Fabietto diventa Fabio
Molto più vivido e meno idealizzato è invece l’incontro tra Fabietto Schisa e Antonio Capuano, che si fa mentore, capace di dare vita alla metamorfosi: da Fabietto a Fabio (o da Paoletto a Paolo, verrebbe da dire) in una delle sequenze clou del film, in cui si compie il rituale più potente dell’intero film nel feroce, crudo e intenso dialogo sul cinema, sul coraggio e sulla ricerca dell’identità. “A tien’ na cosa ‘a raccuntà?”, gli grida Capuano, convinto che solo se si hanno cose da dire si può fare il cinema. Il regista lo provoca e lo invita a non disunirsi, e a non lasciare Napoli, di fronte alla rabbia e al silenzio di Fabio. La sequenza si consuma tra il centro di Napoli , la piscina Mirabilis e il mare antistante, in un tripudio di potenza comunicativa e bellezza.
Ma Fabio partirà per sfuggire a un dolore sordo, troppo grande da sopportare. E il cinema lo farà, a Roma, e non gli verrà poi così male. Ma tornerà a Napoli, ad un certo punto, ed è qui che, GIUNGENDO VIA MARE, darà inizio a questa storia.