I film e la poetica di Eli Roth in 9 punti, tra torture, corpi e storie vere
Uno sguardo alla poetica (politica) di Eli Roth, il regista che ha sdoganato il genere Torture nel mainstream.
In occasione dell’uscita in sala dello slasher movie di Eli Roth, Thanksgiving (2023), ripercorriamo la carriera horror del regista, tracciandone le tematiche ricorrenti, per definirne il percorso autoriale.
Roth fa parte di quello che il critico Alan Jones definì Splat Pack, un gruppo di cineasti indipendenti che, agli inizi degli anni duemila, invasero gli schermi americani con una serie di horror a basso budget, ma fortemente violenti e disturbanti. Registi come Neil Marshall, Alexandre Aja, Rob Zombie, James Wan e lo stesso Roth, contribuirono a rilanciare nel mainstream, una concezione di horror estrema, allontanandosi dall’approccio ludico ed eccessivamente autoironico che aveva caratterizzato molte produzioni dei tardi anni novanta.
1. Eli Roth: il maestro della tortura
Una buona parte della critica attribuisce il successo delle opere di questi cineasti al cambiamento di paradigma culturale determinato, nella società statunitense, dall’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 e alle conseguenze della guerra al terrorismo portata avanti dall’amministrazione Bush. Ovvero, come suggerisce il critico David Edelstein, dopo l’11/09 la cultura statunitense, e più in generale quella occidentale, è stata dominata da un dibattito sulla moralità della tortura, alimentato da atroci immagini di sopraffazione fisica e violenza, perpetrate, da un lato, dagli americani stessi, come nei casi di Guantanamo e Abu Ghraib e, dall’altro, dai gruppi terroristi di matrice islamica, che hanno iniziato a diffondere on line video di esecuzioni di prigionieri e soldati statunitensi. Questo proliferare di immagini estreme ha, in qualche maniera, influenzato la rappresentazione della violenza e dell’orrore nell’immaginario pop, generando, per esempio, il filone horror del torture porn, che vede fra i sui padri proprio Eli Roth.
Effettivamente la poetica di Roth, per quanto riguarda la sua produzione horror, appare inscindibile dal topos della messa in scena della tortura. Eppure partendo da questo tema, fortemente influenzato da una certa cinefilia b-movie oriented, il regista sviluppa alcune interessanti direttrici contenutistiche, attorno alle quali costruisce i propri racconti filmici: la gioventù come elemento paradigmatico della cultura americana, veicolata da un’idea di corpo normato preda di mutilazioni e mutazioni, la critica sarcastica all’assetto socioeconomico capitalista e la giustizia retributiva.
2. Da Cabin Fever a Kock Knock: i giovani secondo Eli Roth
Cabin Fever (2002) è il primo lungometraggio di Roth e fornisce già tutti gli elementi necessari a comprenderne i futuri sviluppi artistici. I protagonisti del film sono un gruppo di giovani universitari che si recano in una casa in un bosco per passare un weekend di follie alcoliche e sesso. Purtroppo per loro, uno strano virus, che porta a una rapida decomposizione corporea e a un aumento dell’aggressività, ne rovinerà i piani.
In Hostel (2005) e Hostel. Part II (2007) i protagonisti sono nuovamente dei gruppi di universitari, stavolta in vacanza in Europa. Nel primo film tre ragazzi e nel secondo tre ragazze, finiscono ospiti di un ostello in Slovacchia, che fornisce vittime a una sorta di business dell’omicidio per ricchi annoiati.
In The Green Inferno (2013) ancora degli universitari, attivisti politici impegnati nella lotta ecologista, si recano in Amazzonia a diventano il “fiero” pasto di una tribù di cannibali, erede edulcorata – questi non ammazzano animali dal vivo – di quella di Cannibal Holocaust (Deodato, 1980). Infine in Kock Knock (2015) il borghese Evan Webber, architetto felicemente sposato, subisce una home invasion da parte di due ragazze giovani e apparentemente interessate solo al sesso ludico. Le due però si rivelano ben presto delle psicopatiche, mosse da una sorta di desiderio di vendetta femminista nei confronti dell’uomo medio americano.
3. Homo homini lupus. La poetica dei corpi nel cinema di Eli Roth
I corpi attraenti dei ventenni, protagonisti delle pellicole di Roth, incarnano una serie di pulsioni tipiche della cultura americana, prima fra tutte l’idealizzazione della giovinezza.
In Cabin Fever i giovani si caratterizzano come degli edonisti disimpegnati, cioè rappresentano un’idea di gioventù da serie televisiva, per cui la costruzione di un’identità soggettiva passa dal ruolo sociale: il giovane ricco un po’ snob, il buffone del gruppo, la bella e sessualmente disinibita, il bravo ragazzo e la ragazza della porta accanto. Roth ci mette davanti alla fantasia della giovinezza venduta dal sistema dell’intrattenimento, che veicola il disimpegno come valore e il piacere fine a sè stesso come merce. Il regista, attraverso il virus della carne, fa emergere la putrefazione che si cela dietro una tale immagine. Gli stereotipi sono solo maschere, che servono a vendere una merce illusoria, cioè una falsa rappresentazione di un’umanità civilizzata, intenta a ignorare tutto ciò che mette in crisi tale rappresentazione. Ma nel mondo di Cabin Fever non esiste possibilità di una fuga ludica dal reale, perché quest’ultimo emerge lacanianamente dalle pieghe del quotidiano. Le sperequazioni sociali, rappresentate dall’homeless che infetta i giovani e la violenta cultura reazionaria dei redneck e dei poliziotti sono la cifra di un reale violento, che assedia le fantasie pop e il safe space accademico entro cui i protagonisti vivono. Il corpo in decomposizione affetto dal virus indica lo sfaldarsi di un’identità fatua, costruita sugli stereotipi della società dello spettacolo, oltre che l’emergere di una natura umana crudele, privata degli orpelli della civiltà. I ragazzi infatti non solo si rifiutano di aiutare chi fa parte di una classe sociale diversa (l’homeless), ma sono pronti a rivoltarsi gli uni contro gli altri pur di sopravvivere. Roth con Cabin Fever delinea una concezione hobbesiana della società, in cui non appena qualche fattore esterno, come un virus, mina i labili presupposti dell’esistenza civile, l’homo homini lupus riemerge in tutta la sua ferocia.
4. Tortura e Capitale
Una tale visione sociale assume dei connotati apertamente anticapitalisti nel dittico di Hostel – la saga è composta da tre film, ma il terzo non è diretto da Roth.
Si tratta dei film che hanno dato il via al genere torture porn. Effettivamente Roth non risparmia al pubblico scene con vittime indifese e immobilizzate, sottoposte a varie sevizie, da uomini e donne (se ne vede solo una in verità, emule della contessa Bathory), che godono del proprio sadismo. La pellicola offre, infatti, una serie di scene di tortura ben coreografate e massimizzate, in maniera simile ai coiti di un film porno. Eppure come ricorda Navarro, Roth “non gioca mai fino in fondo la carta della brutalità diretta” (L’impero del terrore, 2019).
Attraverso un montaggio analogico veloce, l’uso di ellissi e artifici compositivi, tali da nascondere alcuni dei particolari più ripugnanti, i due film risultano abbastanza morigerati, rispetto a emuli apertamente exploitation come il tedesco La petite mort (Waltz, 2009) o a più cupe e seriose variazioni sul tema come il francese Martyrs (Laugier, 2008). Roth per quanto ami giocare con la violenza grafica, in realtà preferisce concentrare ancora una volta l’attenzione dello spettatore sulle dinamiche sociali che generano una simile violenza.
5. La violenza tratta da raccapriccianti storie vere e contemporanee
Il regista ha più volte dichiarato di aver preso spunto per i suoi Hostel dalle immagini di Guantanamo e Abu Ghraib. Eppure, ancora una volta, si pone nella prospettiva di una gioventù statunitense stereotipica. Un’immagine filmica di una generazione che stavolta si trova ad affrontare, in un mondo altro in cui gli americani sono odiati, una forma di spettacolarizzazione del reale a essa speculare e opposta. Quella che trasforma la morte, attraverso i mezzi tipici della messa in scena/cinema, in un intrattenimento scenografato e coreografato per spettatori/attori che possono permetterselo: l’Elite Hunting, l’azienda che organizza le torture, non solo allestisce dei veri e propri set per le esecuzioni, ma cattura le proprie vittime elaborando una complessa sceneggiata, in cui offre alle giovani prede la realizzazione delle proprie fantasie consumistiche, relative alla vacanza europea ideale.
6. L’Europa dell’Est è l’ambientazione ideale nei film di Eli Roth
Come nei classici horror Universal, il luogo d’elezione per questo universo fittizio, questo altrove minaccioso dove la civiltà del diritto si ferma, è l’Europa dell’Est. Sebbene una simile visione possa risuonare di spiacevoli echi xenofobi, bisogna considerare che il tutto è congegnato per creare un contesto in cui non è l’alterità culturale o etnica a rendere demoniaca la location degli orrori di Hostel, quanto la povertà, creata e sfruttata da un sistema economico transnazionale, all’interno del quale i potenti del mondo dettano le proprie leggi. Gli americani in un simile contesto diventano vittime perché sono i primi carnefici. Essi non solo si approcciano alle culture altre come dei consumatori, che forti del proprio privilegio economico, pretendono di reificare sessualmente le donne locali (i ragazzi del primo Hostel) o di essere serviti e riveriti (le ragazze del sequel). Ma spesso sono anche i clienti più assidui e perversi del business delle uccisioni, portato avanti dalla Elite Hunting. Roth crea con i mezzi tipici della tradizione gotica – in questa prospettiva il riferimento alla Bathory del secondo capitolo appare meno aleatorio – una messa in scena del sistema economico capitalista che trasforma tutto in merce, comprese le vite umane.
Per un altro verso si potrebbe sostenere che il regista, furbamente, delinei una critica di ciò che egli stesso sta producendo: l’illusione di sicurezza borghese dei protagonisti, ma anche dello spettatore, si trova faccia a faccia con gli orrori di un capitalismo globale, che usa lo spettacolo (il cinema) come mezzo per attirare le masse e costringerle entro il suo universo di reificazione totalizzante (il film stesso).
Da questo meccanismo di consumo e reificazione infernale non si salva nessuno. Quando, infatti, attraverso la tortura e dunque, ancora una volta, come in Cabin Fever, attraverso la modificazione del corpo, i sopravvissuti, Paxton (Hostel), privato di tre dita e Beth (Hostel. Part II), tatuata e sfregiata nel corpo, rinascono, rimodulando la propria identità sulla violenza subita, si trasformano anch’essi in carnefici privi di scrupoli. Paxton uccide uno degli aguzzini peggiori, dopo esser fuggito. Beth fa addirittura un accordo economico con l’Elite Hunting per uccidere il proprio torturatore e la donna dell’agenzia che aveva adescato lei e le sue amiche. Ancora una volta homo homini lupus.
7. Giustizia o vendetta?
In Green Inferno a esser oggetto degli strali sarcastici di Roth sono invece i giovani attivisti di sinistra. Presentati come dei ricchi bianchi borghesi, desiderosi di lavarsi una coscienza di classe sporca, i giovani idealisti si lasciano abbindolare facilmente da uno scaltro e carismatico opportunista, che li porterà (ancora una volta) fuori dalla safe zone accademica/occidentale. In questo omaggio esplicito al genere cannibal italiano, Roth delinea così una satira horror sulle pretese neocolonialiste occidentali – da un lato le multinazionali malvagie sfruttano l’Amazzonia, dall’altro i “buoni” attivisti si arrogano il diritto di agire in nome degli aborigeni – che può esser letta, sempre secondo Navarro, sia come una tipica fantasia paranoica post-11 settembre sulle culture delle etnie non caucasiche che minacciano la civiltà, sia come un pamphlet critico nei confronti della nostra civiltà invasiva e sfruttatrice.
Da notare, poi, la variazione sul tema della vendetta che si trasforma in giustizia retributiva. La protagonista lascia nella giungla, in mano ai cannibali, l’ipocrita leader ecologista, ma non si occupa di ucciderlo direttamente. Inoltre, per la prima volta in un film di Roth, compare un personaggio che, in qualche maniera, dà voce ad alcune idee del regista, in modo esplicito. Si tratta di una ragazza pseudo-goth, probabilmente fan dei film horror e di quelli dello stesso Roth, che davanti ai disagi generati da una protesta universitaria, si auspica che i giovani bianchi figli di papà vadano a protestare, in silenzio, altrove. La giovane sostiene che quel genere di attività politica sia inutile e inconcludente: una messa in scena. Dunque anche la protesta extra-legale e l’impegno politico rientrano nell’ordine della spettacolarizzazione del reale, propugnata dal Capitale. D’altronde il reiterarsi di finali che inscenano istanze giustizialiste di tipo veterotestamentario – a chi ha negato aiuto gli viene parimenti negato, chi ha ucciso e torturato viene torturato e ucciso, chi dà della “troia” a una donna viene evirato – o che mostrano come in assenza di un simile epilogo il male prosperi – il leader ecologista diverrà capo dei cannibali oltre che icona movimentista – inquadrano il pensiero di Roth in una prospettiva ideologica meno progressista di quanto lo stesso autore vorrebbe lasciar credere con le sue dichiarazioni.
8. Quel buon uomo medio americano protagonista del film di Eli Roth i
Il successivo Knock Knock è chiaro a riguardo. Nell’attuale sistema democratico, emanazione delle politiche di reificazione della vita, attuate dal capitalismo globale, rimane solo la vendetta violenta, sadica e individualista, come strumento d’azione in grado di destrutturare l’assetto valoriale del sistema di potere, qui paradigmatico del patriarcato. Una vendetta da perpetrare, non per forza in conseguenza di un’azione violenta subita, come nelle pellicole precedenti, ma anche semplicemente solo contro un pensiero, uno stile di vita: contro l’idea dell’uomo medio americano, lo stesso rappresentato come il peggiore dei killer in Hostel. Part II.
Il peccato di Evan Webber consiste, biblicamente, nel cedere a una tentazione. Roth propone allo spettatore, di nuovo, una messa in scena, creata appositamente dalle due protagoniste al fine di esporre l’ipocrisia di un certo pensiero politically correct. Il fatto che le home invaders, in questo rape and revenge senza rape, siano due ragazze sexy, che si trasformano quasi in una nemesi biblica per un patetico uomo middle class, nasconde dietro il paravento di un femminismo di facciata, in stile tarantiniano, una logica spietata. Quando quest’ultima viene calata in un altro contesto, come quello del remake de Il Giustiziere della notte (Roth, 2018), in cui è proprio un uomo bianco per bene, che non cede a tentazioni e si pone come protettore/vendicatore delle sue donne, a cercare giustizia retributiva, essa appare apertamente in tutta la sua virulenza reazionaria. Un’ambigua esaltazione di quella giustizia di frontiera, tipica di tanta cultura americana, che è uno dei pilastri su cui si fonda il quadro categoriale etico del pensiero conservatore statunitense. Lo stesso che ha prodotto la reazione violenta dell’amministrazione Bush all’11 settembre e le successive guerre, torture di Guantanamo, Abu Ghraib e così via.
9. Un sistema minacciato dall’interno
Come un inquietante uroboro Roth sembra avere costruito la propria carriera criticando un assetto valoriale, riferibile alle istanze più reazionarie del pensiero politico di matrice hobbesiana, integrato al capitalismo neoliberista, per poi, lentamente, fagocitare le sue premesse iniziali e arrivare a costruire, negli ultimi suoi lavori, una messa in scena atta a glorificare proprio la radice ideologica di quell’assetto. Dal Torture Porn come critica della violenza sistemica dell’occidente capitalista al Death Wish come critica di un sistema occidentale non abbastanza violento con chi, quel sistema capitalista, lo minaccia dall’interno.