Ettore Scola: i film più belli da vedere per amare il narratore italiano
“Io sono figlio del Neorealismo, ma la cifra del mio cinema è un realismo un po’ magico. Nella magia bisogna crederci. Nei miracoli bisogna crederci, anche se poi non accadono; il miracolo deve animarci, tutti dobbiamo essere convinti di essere capaci di fare un miracolo”, con queste parole presenti nel documentario Ritratto di Ettore Scola, Ettore Scola, nato in provincia di Avellino nel 1931 – scomparso a Roma il 19 gennaio 2016 -, racconta il suo cinema, parole non sufficienti per descrivere uno dei maestri che ha saputo narrare l’Italia e la sua storia, i suoi cambiamenti che si riflettono nel tessuto sociale. Scola è stato cineasta, sceneggiatore, disegnatore intellettuale – ha collaborato con la rivista umoristica Marc’Aurelio e lì ha incontrato Federico Fellini, suo grande amico -, ha portato in scena cinquant’anni di noi, del del nostro Paese.
Ettore Scola, narratore della nostra storia
Scola è stato uno dei pochi narratori dell’Italia del dopoguerra, ha diretto alcuni dei più grandi capolavori, collaborando con i grandi attori del nostro cinema da Sordi a Gassman, da Mastroianni a Sofia Loren, passando per Manfredi e Tognazzi fino ad arrivare a Troisi. Da sceneggiatore e da regista è stato capace di filtrare, con sguardo ironico e a tratti cinico, un pezzo di storia che ci appartiene, e con acutezza e malinconia ha eviscerato l’animo umano portando sullo schermo le cronache di amori tristi e infelici, gelosie conturbanti e passionali, piccoli e grandi mostri di luoghi diversi.
“Ho attraversato tanti periodi storici – ha detto -, ho cercato ogni volta di capire che cosa fosse diverso dal periodo storico precedente e che cosa sarebbe venuto dopo. Insomma, la Storia mi ha sempre appassionato e quando ho potuto ho fatto sempre lo stesso film”
Dice questo il cineasta e se si pensa bene alla sua cinematografia, quello che lui compone è proprio un canto d’amore per ciò che siamo stati e in fondo ancora siamo e di cui non dobbiamo dimenticarci. Porta in campo gli slanci mai completamenti paghi del boom economico, con i suoi personaggi, che spesso non raggiungono nulla di ciò che desiderano davvero, le lacerazioni di chi poi non ha più niente in tasca, i drammi e la vitalità di una Nazione, pronta a riempire la propria casa di generi di lusso. Con le sue sceneggiature e con le sue regie ha fatto ciò che fa l’entomologo: cataloga ciò che ha di fronte, lo infilza con uno spillo, lo mette sotto un vetrino, lo esamina fino in fondo, lo guarda da un lato e poi dall’altro per osservarne le fibre più profonde. Scola è capace di rappresentare fragilità, dolori, rassegnazioni ma anche goffaggini, ridicolaggini dei suoi personaggi.
La sua commedia all’italiana – che definisce “la figlia più degenere del neorealismo, una sorta di reazione un po’ reazionaria” – vive di struggimento ma anche di favola, di tragedia e di riso, di mistero e di buffoneria. I suoi film tentano di farci fare pace, di farsi testimoni di un’Italia che si è consolata, di paese, un po’ grassoccia, ma anche piena di sé, fieramente colta, un po’ provocatoria – soprattutto quando la commedia si fa apologo civile.
Ettore Scola, i suoi uomini e le sue donne
Al centro c’è l’essere umano, un album di sottoproletari, di emarginati, di donne che vivono i loro sentimenti facendo a pugni con una cultura che si sta modificando di fronte ai loro occhi, di uomini che devono scontrarsi con essa che è egemone, a tratti, urbana-industriale e che li schiaccia.
Non è un caso che spesso uno dei pilastri del suo cinema sia una certa claustrofobia, in tutti i film questi personaggi sembrano rinchiusi in una gabbia reale o fittizia da cui non è facile fuggire; lo si può vedere in Brutti sporchi e cattivi, in una Giornata particolare, in La famiglia. I personaggi non riescono a sganciarsi dal loro nucleo, dalla loro condizione e quando ci riescono non possono farlo fino in fondo come se fossero legati al loro centro, come se tutto li riportasse dove il viaggio è iniziato.
Ha lavorato anche a film a episodi in cui ha giocato aspramente con i nostri vizi (I nuovi mostri), ha messo alla berlina le espressioni del Potere (Signore e signori, buonanotte).
Ettore Scola. Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?
Paradossalmente però uno dei topos della commedia è proprio il viaggio e come si può non citare Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968). Lavora con Manfredi e Sordi due dei più importanti attori del nostro cinema: l’uno interpreta Oreste Sabatini, detto Titino, l’altro Fausto Di Salvio, editore romano, il secondo va alla ricerca del primo, suo cognato, parte per l’Angola e lì scopre che il parente negli ultimi anni ha fatto vari mestieri scomparendo nel nulla. Di Salvio è una contraddizione vivente, figura tipica del capitalismo paternalista, uno dei personaggi emblematici di questo cinema e anche del “bestiario” di Sordi, abituato a dare corpo a una certa Italia del boom economico, qui bestemmia contro il razzismo ma poi in Africa pratica il turismo sessuale. L’Africa rimescola le carte, come un bubbone purulento fa scoppiare i piccolo borghesi, miopi e conservatori, smitizza noi, le nostre leggende, i miti che noi stessi abbiano fondato, primo fra tutti quello dell'”italiani brava gente”.
In questo film si mostra la società in crisi che vede disintegrarsi tutti i pilastri su cui si è sempre poggiata, cerca soluzioni ma non le trova nei propri confini e i suoi cittadini sono costretti ad andarsene, eppure neanche lì trovano il loro posto.
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Ettore Scola e i suoi film migliori. Tra il Dramma della gelosia… e Brutti, sporchi e cattivi
Adelaide, Nello e Oreste. Sono loro i protagonisti di Dramma della gelosia… che è il primo capitolo della tesi per cui la felicità è anche benessere, ai poveri non viene regalato niente. Scola dà tinte melodrammatiche alla commedia e sottolinea il carattere subculturale della vicenda. C’è già un po’ di quei personaggi emarginati di Permettete? Rocco Papaleo (1971) e di Brutti, sporchi e cattivi (1976), i tre protagonisti infatti sono personaggi di un dramma popolare, di un testo riempito di patetiche affermazioni e situazioni da commedia rosa per irridere gli italiani che “siamo” diventati. Scola gioca con tutti questi elementi e con i personaggi: Adelaide (Monica Vitti) crede veramente di poter vivere in un fotoromanzo, di essere come quelle eroine spinta prima verso il militante Oreste (parafrasando, chiedimi qualsiasi cosa, dice lei a lui che risponde: vota PCI), poi verso il focoso Nello (Giannini) – che la colpisce facendo, essendo pizzaiolo, una pizza a forma di cuore.
In Brutti, sporchi e cattivi ad esempio non c’è spazio per pietà, sentimenti e sogno. Tutto è brutalità, esasperazione. C’è di nuovo Manfredi, che qui interpreta una maschera memorabile piegando il suo solito schema, quello del bonario, del paziente, del buono, veste i panni del perfetto borgataro, avido, manesco, ubriacone.
C’eravamo tanto amati: il film epitaffio di Ettore Scola
“Se semo stufati de esse buoni e generosi”
Descrive così Antonio (Nino Manfredi) sé stesso e la sua generazione in uno dei film cardine del cinema italiano, C’eravamo tanto amati, nostalgico e struggente capolavoro del regista, scritto con Age e Scarpelli. La pellicola narra la storia di Antonio, Gianni (Vittorio Gassman) e Nicola (Stefano Satta Flores), ex partigiani, conosciutisi durante la guerra di liberazione; i tre prendono strade diverse, eppure restano amici: uno portantino al San Camillo, l’altro sposo della figlia di un palazzinaro, il terzo insegnante a Nocera Inferiore ma col sogno di scrivere un libro di storia del Cinema. Tutto si complica quando nella loro vita entra Luciana interpretata da Stefania Sandrelli che qui dà corpo all’ennesima donna innamorata del cinema e desiderosa d’entrare nel magico mondo della dolce vita, bisognosa d’amore, vinta spesso dal mal di vivere. Lei annoda e riannoda i fili della storia e riunisce i tre uomini: di lei si innamorano, la fanno soffrire, fa soffrire, vuole e rivuole, vive l’amore tradito, è amante sconsolata, moglie felice, e attorno a lei trent’anni di vita scorrono, i capelli ingrigiscono, i solchi sul viso si fanno profondi.
“Credevamo di cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi”; mostra ciò di cui tutti si rendono conto ad un certo punto della loro vita con addosso il peso delle speranze disilluse, dei tradimenti subiti, delle pochezze del presente. Tutto si mescola in un doloroso riso bagnato dal pianto. C’eravamo tanto amati ruota intorno alla Grande e alla piccola storia, quella dei partigiani e quella dei piccoli uomini, scrive anche la storia del cinema grazie a uno stile e una scrittura rivoluzionari. Si scivola tra presente e passato, tra un pieno e nebbioso bianco e nero e il colore, tra la Resistenza e la triste realtà della quotidianità. Scola verticalizza il tema del viaggio nel tempo – si susseguono infatti vari piani temporali -, si gioca anche con la stilizzazione teatrale.
C’eravamo tanto amati è un film epitaffio perché si tratta di un caldo canto di memoria e di dolorosa rassegnazione – non c’è più tanta voglia di ridere -, si deve ammettere che le cose cambiano e noi con loro. C’è nel film una tendenza crepuscolare che diventerà uno degli elementi fondanti del suo cinema; la stessa tendenza si nota nel film La famiglia in cui il regista percorre, attraverso un’intera famiglia appunto, la storia d’Italia dal 1906 al 1986.
Una giornata particolare: il film di Ettore Scola con Sophia Loren e Marcello Mastroianni
6 maggio 1938. La Roma fascista è accorsa nelle strade per festeggiare Hitler, venuto in visita da Mussolini. In un caseggiato popolare Antonietta, moglie disfatta da sei maternità e dalla fatica di stare accanto ad una fanatica “camicia nera” e lei stessa fascista convinta incontra, inseguendo un pappagallo fuggito dalla gabbia, Gabriele, ex annunciatore radiofonico, cacciato dal servizio con l’accusa di essere un “sovversivo” ma, in realtà, perché è un omosessuale. Racconta questo Una giornata particolare (1977), uno dei più celebri film di Scola, girato in quello che è probabilmente stato il periodo più felice della sua lunga carriera, in grado di rinnovarsi e cercare altre vie narrative. Mette in scena una storia di solitudine e di amicizia, di emarginazione – doppia, sia per lei che per lui -, e di solidarietà.
Gabriele: “Io ci sono abituato, sono scapolo.”
Antonietta: “Scapolo? Allora pagate la tassa sul celibato”
Gabriele: “Eh già: come se la solitudine fosse una ricchezza”
Scola è capace in un Kammerspiel di abbattere le pareti e entrare nel dramma a porte chiuse nella vita di due anime disperate, alla deriva. Lo spettatore comprende molto di ciò che sta avvenendo fuori grazie al cinegiornale e alla radiocronaca della grande parata. Il film è collocato nello spazio e nel tempo ma ciò a cui sembra puntare davvero è lasciare che Antonietta e Gabriele spieghino sé stessi. Da qui deriva quella che Lino Micciché ha definito “irrealistica paradossalità”, Una giornata particolare è un testo sulla donna e sull’essere omosessuale durante il fascismo, sulla famiglia e sulla solitudine, sulla libertà e sul dominio. Scola racconta l’imprevedibile e l’imprevisto in due sensi: da una parte Antonietta e Gabriele superano i ruoli di reietti che la società ha scelto per loro, dall’altra Sophia Loren e Marcello Mastroianni superano i loro stessi ruoli feticcio. Lei si imbruttisce, elimina quell’ipersessualità a cui ha abituato il pubblico, Mastroianni, conosciuto per i suoi ruoli da elegante latin lover o da “gallo” – come lo descrive Jacqueline Reich in uno dei suoi saggi più importanti su ciò che c’è dietro a questo personaggio -, qui impersona un omosessuale dichiarato che rompe dunque il sistema di valori che lui stesso ha costruito.
Questa è una storia d’amore che sembra impossibile, un breve incontro che commuove, una delicata istantanea di vita privata. Insieme Antonietta e Gabriele superano la condizione di donna sottomessa e di uomo che esce dal canone maschile, di quell’uomo-massa caro al fascismo e al nazismo. Poco importa se questa è solo una giornata particolare perché la forza del racconto arriva dritta allo spettatore.
La saggezza (o forse no) dell’età adulta
Un lussuoso attico romano. Lì si incontrano gli amici di una vita. Quelli che dovrebbero essere i migliori, sempre quelli, registi, scrittori, critici, intellettuali, politici, sono loro invece i nuovi mostri. Quelli al centro di La terrazza (1980) sono dei falliti che fingono di continuo o sono dei disperati; la loro mostruosità è impastata di opportunismo, si sentono vittime del sistema, degli altri, provano invidie profondissime quanto provano una stanca autocommiserazione. A poco a poco da quella terrazza parte una ramificazione di storie che rendono ancora più “bestiali” tutti i protagonisti, ciascuno con il suo difetto, con la sua insopportabile supponenza e depressione.
Nel film c’è una critica feroce al mondo contemporaneo, priva di numi tutelari, ciascuno dei personaggi si crede rappresentate speciale di una nuova età dell’oro – messi da parte gli anni bui “del piombo”-, nascondendosi dietro a maschere che sono comunque terribili e grottesche.