Le Favolacce dei D’Innocenzo e I Miserabili di Ladj Ly – marginalità a confronto
I fratelli D'Innocenzo e Ladj Ly ci conducono nel cuore di tenebra della periferia romana e di quella parigina. Ma la loro lettura della marginalità è del tutto differente.
Nel giro di una settimana, rispettivamente l’11 e il 18 maggio, sono stati distribuiti per la visione in streaming Favolacce, opera seconda dei fratelli D’Innocenzo, e I miserabili, primo film di finzione di Ladj Ly.
Fabio e Damiano D’Innocenzo e Ladj Ly – accenni biografici e carriera dei registi della marginalità
I fratelli D’Innocenzo, Fabio e Damiano, sono due gemelli apparentemente omozigoti nati a Roma nel 1988. Hanno trascorso i primi anni di vita tra Pomezia e il quartiere periferico Tor Bella Monaca e, intorno all’inizio dell’età scolare, si sono trasferiti con la famiglia – padre, madre, un fratello, una sorella – sul litorale laziale. Artisti precoci, cresciuti in un contesto umile ma intellettualmente stimolante, hanno cominciato da adolescenti a disegnare e scrivere copioni. Oggi, alle soglie dei trentadue anni, hanno già realizzato due lungometraggi – La terra dell’abbastanza e Favolacce, entrambi presentati e acclamati a Berlino – e pubblicato sia un libro di poesie sia uno di fotografie. Eclettici, privi di formazione accademica, hanno imparato tutto mimeticamente, dalla letteratura e dalle arti visive: il loro cinema è tanto plastico quanto para-letterario, sensuale e amaramente poetico, anche se mai lirico. Creatura mitologica a due teste, gemelli che non si combattono come Romolo e Remo per la supremazia sul territorio – la periferia romana – ma collaborano per espugnarne i segreti, i fratelli D’Innocenzo rappresentano una personalità già pienamente carismatica del nostro cinema.
Anche Ladj Ly, dieci anni in più dei D’Innocenzo, è un ragazzo di periferia: nato a Montfermeil, sobborgo ad est di Parigi, da genitori maliani, ha in passato avuto problemi con la legge ed è completamente autodidatta. Politicamente attivo, nel 2018 ha fondato nel suo quartiere una scuola di cinema gratuita. Incarnazione di come il cinema possa diventare strumento di riscatto e di affermazione democratica del talento, Ladj Ly scrive e realizza film solo su ciò che conosce e di cui è stato testimone: anche I miserabili, epigono di un corto del 2017 con il medesimo titolo, ricostruisce per la scena una serie di violenze accadute negli ultimi anni tra gli abitanti di Montfermeil e la polizia locale, in un gioco di specchi nel quale nessuno, né guardie né ladri, ripudia le grammatiche gangstariane, i linguaggi dell’abuso e della predazione.
Favolacce e I miserabili: un confronto serrato (e disperato) tra adulti infantili e bambini adultizzati
Favolacce e I miserabili, senz’altro penalizzati dalla mancata uscita in sala, ma comunque tra i prodotti filmici più interessanti del momento, sono entrambi storie di periferia, ma il punto d’osservazione, le chiavi analitiche, i processi trasfigurativi attuati sono completamente differenti. È interessante, quindi, indagare in che modo questi cineasti contemporanei hanno elaborato la loro meditazione sulla marginalità e contribuito alla comprensione di microcosmi che, pur maggiormente rappresentati negli ultimi anni nelle arti (basti pensare al rap), restano spesso al di là della cortina del nostro interesse, avvolti in una foschia di disprezzo, indifferenza, indisponibilità a vedere.
In Favolacce, la vicenda è ambientata a Spinaceto, quartiere a sud-ovest di Roma, a un chilometro dal grande raccordo anulare, già evocato da Nanni Moretti nel suo Caro Diario (“Be’, Spinaceto, pensavo peggio; non è per niente male!”). Si tratta di un quartiere sì periferico, ma affatto degradato dal punto di vista urbanistico. È un luogo che fatica a trovare un’identità estetica e in cui le marginalità che vi risiedono partecipano di un anonimato tutto sommato benestante, sofferente non perché mancante di qualcosa, ma perché dotato di eccessi di status symbol (la piscinetta, la scuola privata) che lì non valgono niente e che si vorrebbe, ma non si può, esibire altrove.
Favolacce e I miserabili: due film su forme diverse di violenza che regolano i rapporti in periferia
Favolacce è una storia di padri e di figli, un confronto serrato tra mondo adulto infantilizzato e mondo infantile adultizzato. È una parabola – una favola amara, come da titolo – discendente, un dark tale distruttivo che s’arrende di fronte al fallimento della trasmissione di valori perché i padri non hanno alcunché da trasmettere, se non la loro frustrazione di non avercela fatta, l’intima convinzione di meritare più di quel che hanno – in nome di quale diritto, poi? –, la stizza, a tratti rabbiosa a tratti più sottilmente velenosa, per il mancato soddisfacimento di un desiderio di visibilità, di un mancato rifornimento narcisistico.
La periferia dei Miserabili (il titolo rimanda al romanzo di Victor Hugo, in parte ambientato a Montfermeil) è, invece, quella multietnica e multireligiosa dei sobborghi ai margini della grande metropoli, sovrappopolata da reietti, da diseredati di ogni genere. La disperazione non è ingoiata, ma espettorata in una rabbia che fermenta e deflagra, in un continuo stato d’allerta vibrante di elettricità negativa. Lì il caos regna anche nelle facciate sbeccate dei palazzoni e negli interni delle case, nelle parole sempre gridate, in una violenza in fondo dichiarata, mai ipocrita, mai affidata a strumenti sottili, a forme più mediate.
In Favolacce i padri sono aggressivi e machisti (perché insicuri della loro virilità, perché ‘periferici’ a loro stessi e ai loro desideri); i padri sono pure ignoranti anche se tentano di compensare alla loro mancata educazione sovra-istruendo – ma mai educando – i figli. C’è anche un personaggio sempre adulto che, però, amministra il sapere e quel sapere lo usa per manipolare, per esercitare i suoi sortilegi malefici: in quel caso, l’unico, la violenza bruta è soffocata, delegata a formule matematiche che, come formule magiche, consegnano ai piccoli la via d’uscita dall’aridità soffocante delle loro famiglie, ma quella via d’uscita non porta alla salvezza morale, al recupero della vitalità, alla promessa del futuro.
Nei Miserabili gli adulti, a parte, forse, l’eccezione di un ‘poliziotto buono’, non hanno gli strumenti per fingere una pazienza che hanno, invece, tutta consumata, e non dispongono né di sofismi né di sapere per tessere trame più subdolamente distruttive. La loro è una violenza più riconoscibile, meno infida, e, per questo, se è più difficile trovare una via d’uscita materiale, lo è meno rinvenire occasioni di resistenza morale, sacche di consapevolezza di fronte al male.
I miserabili e Favolacce: il film di Ladj Ly documenta la realtà, quello dei D’Innocenzo la interpreta
Entrambi i film sono verticali nel tema – il confronto intergenerazionale più che interclassista – ma orizzontali nella risoluzione della dialettica: tra grandi e piccoli non vi è differenza, il mondo dei ragazzini, per quanto intossicato, è moralmente superiore, ma la redenzione non tocca a nessuno. Pur utilizzando immagini che afferiscono alla dinamica alto e basso, nella sostanza formale sia Favolacce sia I miserabili sono orizzontali: il film dei D’Innocenzo è una sequenza di episodi in sé conclusi e autosufficienti, senza alcun carattere d’interdipendenza se non in alcuni agganci frammentari; l’opera di Ladj Sy è testamentaria e, dunque, per sua natura piatta, in quanto rifiuta la trascendenza.
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È questo il limite più grande del film, e cioè il suo rifiuto a mistificare, il suo negarsi a verticalizzare concettualmente, a sovrapporre al documento del reale una visione, una rilettura simbolica in grado di elevarlo. Falliscono I miserabili per eccesso di realtà, per eccesso di denuncia, per eccesso d’aderenza (e inerenza) a fatti presentati ma non rappresentati, mai mediati dalla meditazione autoriale, da un discorso altro rispetto ad un reale troppo attorcigliato su se stesso, troppo strozzato nell’intento rivendicativo autoreferenziale.
Favolacce è, quindi, a ben guardare, l’unico dei due film che s’occupa veramente di periferia; è l’unico dei due film in cui la periferia è interiorizzata, è iscritta nelle mutazioni radicali della genetica morale e si rivela nei suoi cortocircuiti affettivi e psichici. La rappresentazione della periferia in Favolacce, sì estetizzante, ma di una sensorialità paradossalmente raggelante, dalle atmosfere disturbanti e quasi lanthimosiane (il film, a tratti, ricorda Kinodontas), è una rappresentazione che avvita la dimensione collettiva a quella individuale, il sociale all’inconscio, la certezza di non essere visti dall’altro per quello che si crede di valere alla negazione dell’altro come concetto, all’istinto di sopprimerlo, di mortificarne gli impulsi vitali, di trasformarlo nell’avatar automatizzato e performante con cui si tenta di riempire la faglia, di occludere la mancanza.
Nei Miserabili viene offerto allo spettatore un report dall’interno del presente; in Favolacce un punto di vista esterno sullo stesso presente, una sua interpretazione, per quanto o proprio perché deformata, in fondo urgente, coraggiosa. Nei Miserabili c’è il reale; in Favolacce il vero.