25 aprile. I migliori film da vedere per capire la Liberazione d’Italia
Il 25 aprile si festeggia la Liberazione. Una data importantissima che il cinema ha saputo immortalate e spiegare meravigliosamente.
Si deve ricordare, ricordare non solo la tragedia bellica ma anche la Liberazione, non solo la resistenza ma anche la resa che significava una sola cosa: la fine. Bisogna riportare alla memoria i ladri di biciclette, animati da forti ossessioni, banditi per gli uni, eroi per gli altri, gli uomini stanchi e sfibrati, affamati e delusi, le madri e le mogli, guerriere per necessità prima e per vocazione poi. Serve riportare negli occhi quei figli che giocano alla guerra, facendo come i grandi. Sono necessarie le Nazioni anno zero, disperatamente adagiate sulle proprie macerie, depredate, violentate ed eviscerate come quei santi e quelle sante tormentate da supplizi tutti terreni. Si deve mantenere viva la memoria storica, omaggiando anche il 25 aprile, la Liberazione, simbolo anche della Resistenza italiana: la fine dell’oppressione nazi-fascista in Italia e degli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
Il 25 aprile: la Liberazione d’Italia spiegata attraverso i film migliori
Necessariamente serve dire cosa rappresenti ancora il 25 aprile, cosa si celebri in questa giornata. Il 25 aprile 1945 è la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dal regime fascista; è un giorno fondamentale per la nostra storia e assume un particolare significato politico e militare, in quanto simbolo della resistenza militare e politica attuata dalle forze armate Alleate, dall’Esercito Italiano ed anche dalle forze partigiane durante la seconda guerra mondiale a partire dall’8 settembre 1943. Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) proclama l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, indicando a tutte le forze partigiane di attaccare i presidi fascisti e tedeschi imponendo la resa. “Arrendersi o perire!” è la parola d’ordine dei partigiani in quei giorni.
Il 25 aprile, la Liberazione che mette fine a vent’anni di dittatura fascista e a cinque anni di guerra -, il culmine della fase militare della Resistenza, porterà prima al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica, e poi alla nascita della Repubblica Italiana. Entro il 1º maggio tutta l’Italia settentrionale viene liberata.
Tra Roma città aperta e Paisà: un mondo, anno zero
Il cinema ha saputo raccontare la Resistenza e la Liberazione con storie drammatiche, dure, struggenti, ma anche con un malinconico sorriso sulle labbra, è stato in grado di immergersi nel ventre molle di una delle pagine italiane più dolorose ma anche è stato in grado di analizzare luci e ombre di vittime e carnefici, vincitori e vinti. Dal dopoguerra a oggi la Settima Arte non si è mai tirata indietro mostrando ciò che è difficile mostrare, sussurrare, dire perché la guerra, la resistenza, il nemico fanno paura; è anche però necessario mostrare quanto uomini e donne coraggiosi e intrepide abbiano lottato per la libertà e per il futuro.
Fame, bombe, macerie e crudeltà sono il magma narrativo su cui poggia Roma città aperta di Roberto Rossellini (vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 1946), corifeo del Neorealismo, che ha dato inizio così alla trilogia della guerra antifascista – in cui il regista racconta Italia tra la caduta del fascismo e la liberazione – insieme a Paisà (1946) e a Germania anno zero (1948). Con Roma città aperta Godard ha detto: “l’Italia ha appena riconquistato il diritto per una nazione a guardarsi in faccia” ed è questa la sensazione che si ha fin dai primi fotogrammi. Rossellini ha bisogno di narrare, spinto da una sollecitazione umana, e non solo intellettuale, a non dimenticare. L’urlo disumano e straziante di Pina (Anna Magnani), una terrigna e immensa Magnani, con la sua “virulenza plebea”, come dice Castellabeppe su un numero di Star del ’45, la maledizione dal sapore biblico di Don Pietro (Aldo Fabrizi) riecheggiano nei cinema, nelle nostre orecchie, nei libri di scuola, vibrando con una forza che ancora oggi non perde di vigore. Magnani diventa simbolo della dolorosa fatica delle vittime ma anche di tutti coloro che hanno sopportato i giorni delle bombe, della paura, dello sgomento. Si mette in scena il sacrificio degli umili in nome di qualcosa di più grande, si partecipa alle giornate di quei disperati in uno spazio frantumato e turbato – lo stesso in cui si vive in Germania anno zero diventando scenario del film stesso.
Con Paisà si rievoca l’avanzata delle truppe alleate dalla Sicilia al Nord Italia; il film è composto da 6 episodi, Sicilia, Napoli, Roma, Firenze, Appennino Emiliano, Porto Tolle, tenuti insieme dalla spinta potente, declinata da dialetti, terre, altitudini, della Resistenza per cui si combatte insieme.
Tra finti generali (Della Rovere) e ufficiali
Di nuovo Rossellini. Non quello del neorealismo. In Il generale Della Rovere (1959) racconta la metamorfosi di Emanuele Bardone (Vittorio De Sica). All’inizio è solo un truffatore, amante del gioco e delle donne, usa il clima di divisione prodotto dalle autorità nazifasciste a Genova per sbarcare il lunario e salvarsi. Sopravvive ingannando i parenti dei detenuti politici, fingendo di avere grandi conoscenze. Alla fine però Bardone, tra le pareti di San Vittore dove entra come Generale Della Rovere per avere notizie dai detenuti per scoprire i capi della Resistenza, cresce, matura, scopre i sentimenti profondi che animano quegli uomini che mettono a repentaglio la propria vita per il bene comune. Il film mostra l’Italia spaventata, atterrita ma piena di buoni sentimenti, quella coraggiosa che accetta qualunque sopruso per la libertà collettiva.
Un’altra presa di coscienza è quella di Alberto Innocenzi (Alberto Sordi) in Tutti a casa di Luigi Comencini. Il film narra lo spaesamento e la gioia di tutti quei soldati che dopo l’8 settembre 1943 hanno dovuto fare i conti con un armistizio che portava con sé l’ebrezza di una guerra finita ma che poi si è rivelata solo l’inizio di qualcosa di ancora più potente. Innocenzi è un sottotenente che come spesso capita a Sordi, non è né buono né cattivo, è uno come tanti, fa suoi molti degli slogano mussoliniani eppure forse, in realtà, non crede veramente in nessuno di essi. Lui è un po’ furbo e un po’ ingenuo, come fa intendere il suo cognome con una “strana” assonanza. L’uomo, tra la tragedia e la commedia, si prepara al ritorno a casa – una casa che già nel titolo porta una lettera al contrario come per dire che il ritorno è imperfetto -, ma ad ogni passo comprende che c’è molto ancora da dare e si risveglia non solo il suo essere umano ma anche la propria dignità dimenticata in quel difficile periodo.
Non si può non citare Il partigiano Johnny (Guido Chiesa, 2000) – che trae ispirazione dal romanzo di Beppe Fenoglio – in cui Johnny, giovane intellettuale di famiglia borghese, prende la sua decisione tra dubbi e inquietudini di aderire alla Resistenza.
La notte di San Lorenzo
I Fratelli Taviani raccontano spesso la guerra, la resistenza e la Liberazione, nel 2017 hanno realizzato Una questione privata con Luca Marinelli. Uno dei film più intensi e dolorosi è sicuramente La notte di San Lorenzo, uno dei lavori più intimi dei due cineasti: è ambientato nel 1944, nella loro terra toscana, attraversata dalla paura delle ultime fasi della “guerra di liberazione”, con i nazisti sullo sfondo, lo scontro tra fratelli partigiani-fascisti, e il racconto vivo di una popolazione indifesa, vittima di un massacro e in marcia verso la libertà. Quella dei Taviani è una storia vista dal basso, dalla gente che forse poco capiva ma che doveva vivere le scelte volute da altri; a narrare tutta la storia gli occhi di una bambina – sguardo in cui si vede quello della protagonista di L’uomo che verrà di Giorgio Diritti; qui si narra l’eccidio di Marzabotto – che vede il mondo con la sua ingenuità. Il partigiano diventa un eroe omerico che tempesta e trafigge con frecce il fascista in divisa anch’egli trasformato in un guerriero mitologico.
I registi, con la loro ballata tragica e poetica, dimostrano che gli uomini e le donne devono sopravvivere anche se il mondo intorno crolla, si devono sposare, devono sognare, amare. Questo è un dovere verso sé stessi, verso l’essere umano. Questa è libertà.
Un fiume di vita difficile ma comunque amata
Inevitabilmente ci sono molti film in cui il 25 aprile c’è, esiste ma viene raccontato come qualcosa che sta fuori dalla porta mentre la vita di uomini e donne prosegue. Pensiamo a film come Una vita difficile (Dino Risi, 1961) e C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974) in modi diversi i protagonisti e le protagoniste assistono con le pance vuote e i corpi molli a quel grande spettacolo che è la vita quasi senza rendersi conto di ciò a cui stavano partecipando. In Una vita difficile, una poesia sofferente e poco umoristica che racconta uno strappo violento, una delusione lenta e continua, la frustrazione derivante da investimenti eccessivi, da grandi desideri. Silvio Magnozzi (Alberto Sordi) subisce i grandi cambiamenti della storia senza viverli: mentre i compagni rischiano la vita in guerra, lui, in divisa, si rifugia tra le braccia di una donna, si parla di liberazione ma lui non la vive fino in fondo, scrive articoli ma non sembra crederci con tutto sé stesso. Nel film di Dino Risi si narra il dramma malinconico di un uomo semplice e di una nazione piena di fragilità e ipocrisie.
Il film di Scola ruota intorno a Antonio (Nino Manfredi), Gianni (Vittorio Gassman), Nicola (Stefano Satta Flores), Luciana (Stefania Sandrelli), alla Grande e alla piccola storia, quella dei partigiani e quella dei piccoli uomini, uniti dal loro passato di lotta e al loro presente. Il 25 Aprile c’è ma passa come passa tutto per questi uomini e donne. C’eravamo tanto amati segna il nostro cinema grazie a uno stile e una scrittura rivoluzionari, narrando racconti delle illusioni della Resistenza ma anche la triste realtà della quotidianità, schiacciata da tradimenti e amare delusioni. Mostra con malinconica ironia una storia tutta italiana, in cui vizi e virtù dell’uomo vengono sviscerati in un gioco di memoria e di dolorosa rassegnazione nell’ammissione che le cose cambiano, gli amori e i rapporti finiscono.
Le donne di lotta e Resistenza
Il film L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo si basa sul romanzo, in parte autobiografico, di Renata Viganò pubblicato nel 1949 e racconta con il giusto rigore e con la dolorosa partecipazione il percorso di una donna negli anni dell’occupazione nazista. Il marito di Agnese (Ingrid Thulin) viene prelevato per essere deportato dai tedeschi per aver dato rifugio a un soldato. Rimasta vedova inizia a collaborare con i partigiani accettando anche incarichi pericolosi e a poco a poco prende coraggio e coscienza di quanto accade. Agnese ha paura ma ha anche, infuso dal marito tanto coraggio, vive questa nuova esistenza in nome suo e di un riscoperto senso d’appartenenza e di fratellanza.
Sulle donne spesso si scatena la brutalità del mondo, come non pensare al meraviglioso e tragico La ciociara (Vittorio De Sica, 1960) in cui la bestialità violenta del maschio conquistatore distrugge le vite di una madre e di una figlia in una delle scene più drammatiche della storia del cinema, quella dello stupro – ultimo atto per stabilire la supremazia del vincitore – da parte di un un gruppo di Goumier, soldati nordafricani dell’esercito francese. Per loro l’unica possibilità per sopravvivere a quell’atto sarà appoggiarsi l’una all’altra per resistere.
Carlo Lizzani tra Achtung e ultimi atti
Carlo Lizzani, dopo aver fatto Achtung! Banditi! – film che parla della Resistenza, ponendo al centro i partigiani, piegati dalla fatica e dallo sconforto – ambienta il suo Mussolini – Ultimo atto tra il 25 aprile 1945 e la morte del Duce. Il suo film è una sorta di documentario, dimostra pietas umana nei confronti di Mussolini e soprattutto di Claretta Petacci, la donna che lo ha amato. Lizzani è stato partigiano eppure lascia il giudizio politico alla storia, fa pronunciare un atto di accusa contro il fascismo ai personaggi dei partigiani, preferendo mettersi da parte e tracciare la psicologia di un uomo sconfitto.